Anche il vino risente delle mode, delle tendenze culturali, sociali e delle sensibilità del momento. In un recente passato, un vino rosso non era degno di nota se non esprimeva aromi di frutta matura, sfumature di confettura, cenni boisé, un carattere concentrato, strutturato e potente. Un’idea di vino che in breve tempo si è diffusa in tutto il mondo, contribuendo a dar vita a quel gusto internazionale, che a partire dagli anni Ottanta ha dominato per alcuni decenni il panorama dei grandi rossi.

Una vera e propria filosofia produttiva basata sulla ricerca di una ricca maturità, o addirittura di surmaturazione, e su tecniche di vinificazione e di affinamento - con un utilizzo massiccio di barrique - orientate a ottenere vini intensi e dal sorso armonioso e suadente.

Un processo che spesso è stato riassunto in modo un po’ semplicistico con il termine di parkerizzazione, facendo riferimento ai vini premiati con i punteggi più alti dal famoso critico Robert Parker, fondatore della rivista The Wine Advocate e grande esperto di Bordeaux.

Questa visione del vino ha interpretato e plasmato il gusto di quegli anni, assecondando e sintonizzandosi in qualche misura sul mood della globalizzazione, che stava cominciando a permeare tutti gli aspetti delle società occidentali.

Un concetto quasi astratto, che privilegiando la ricerca di un preciso risultato finale, ha progressivamente contribuito ad assottigliare le differenze tra i territori e le diverse consuetudini locali. Un percorso di omologazione e standardizzazione, storicamente e culturalmente figlio dei modelli della civiltà e dell’economia industriale, che ha investito purtroppo anche il mondo del vino.

La riproducibilità tecnica

Lontano da quella artigianalità e specificità ontologicamente legata al concetto di genius loci, anche il vino è stato proiettato nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, per citare Walter Benjamin.

Una scelta che ha progressivamente dissolto le differenze, attenuando i caratteri distintivi per fonderli all’interno di un modello unificante. Ovviamente il fenomeno ha interessato soprattutto i vini mainstream e molto meno le storiche eccellenze, che salvo qualche momentanea deriva modernista, hanno continuato a seguire il loro secolare percorso.

La successiva riscoperta dei vitigni autoctoni, la conseguente valorizzazione delle caratteristiche peculiari delle diverse uve e di pratiche produttive in grado di restituire con trasparenza l’autenticità dei singoli terroir, ha condotto il mondo del vino verso il particolare e la diversità.

È cominciato così il declino dei grandi rossi. La ricca morbidezza fruttata, la concentrazione e la potenza sono apparse sempre più caratteristiche artificiose e artefatte.

Lentamente è prevalsa una filosofia di matrice borgognona, che antepone la specificità di ogni singola parcella, l’espressione particolare di una sola vigna, mettendo in risalto e valorizzando il concetto di unicità, originalità e irriproducibilità.

A questa rivoluzione, che passa dal generale al particolare, dal globale al locale, trovando poi la sintesi nell’espressione contemporanea glocal, ha fatto seguito la riscoperta di un vino altro. La ricerca di autenticità, di aderenza alle peculiarità di ogni singolo vitigno e luogo di produzione, ha cambiato completamente la prospettiva.

Scorrevolezza

A questo si è aggiunta la predilezione da parte di molti appassionati per il Pinot Noir di Borgogna, identificato come esempio perfetto di un rosso di terroir. La stella polare della Borgogna ha portato alla ricerca di vini più leggeri e raffinati, scorrevoli e vibranti.

In Italia si sono valorizzati vitigni autoctoni come il frappato, la schiava, il rossese, il piedirosso, il ciliegiolo, connotati soprattutto da fragranza, freschezza e piacevolezza immediata. Le vinificazioni si sono alleggerite, le estrazioni sono diventate più delicate e i vini esprimono un profilo più sottile e dinamico.

Un cambio di rotta, che interpreta perfettamente il concetto di leggerezza esposto da Italo Calvino nelle Lezioni Americane. Sottrarre, togliere, arrivare all’essenziale, non per impoverire, ma per esaltare la vera natura del vino, libera da eccessive e ridondanti sovrastrutture.

La nuova visione ha avuto il merito di valorizzare il territorio, la cultura secolare dei luoghi, di mettere in discussione il dogma della barrique, favorendo l’utilizzo di legni di differenti dimensioni, di vecchi e nuovi materiali, dal cemento alla terracotta, dal gres alla ceramica.

Il gusto contemporaneo ha sposato questa tipologia di vini più lievi e lineari, tanto che anche l’Amarone sta attraversando una crisi d’identità. Tuttavia, è bene prestare attenzione al rischio di non scivolare in una nuova spirale d’omologazione uguale e contraria, per non ritrovarci in un mondo di patetiche e pretenziose imitazioni di Vosne Romanée, Volnay e Pommard. Meglio rifuggire le banali semplificazioni e imparare ad abbracciare invece la complessità, la diversità, che nel mondo del vino, come nella vita, sono la vera ricchezza.

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