Il giudizio universale di Francesco inizia oggi. Quando gli uscieri apriranno le porte della maxi aula di giustizia allestita dentro i musei vaticani, facendo entrare una piccola folla di imputati eccellenti, avvocati di grido, giornalisti, giudici e promotori di giustizia, cioè il gruppetto di mischia che animerà il processo più delicato della storia recente del Vaticano.

La parola è abusata, ma l’udienza che sarà officiata dal nuovo presidente del tribunale Giuseppe Pignatone è un evento memorabile. È la prima volta che un pontefice, teocrate dello stato della città del Vaticano, manda alla sbarra un potente cardinale finito in disgrazia (Angelo Becciu), fino a un anno fa suo fidato collaboratore e considerato, da quasi due lustri, il più influente monsignore della curia romana.

È un unicum anche la decisione di provare a fare luce sugli investimenti fatti con l’Obolo di san Pietro, decine di milioni l’anno che invece di essere spesi per gli ultimi vengono reinvestiti (dai tempi di Giovanni Paolo II, va ricordato) sui mercati finanziari e su operazioni altamente speculative. Se in passato il Vaticano aveva già condotto indagini su preti e laici, non era mai successo che a finire sotto inchiesta fossero i funzionari apicali della segreteria di Stato, il dicastero che lavora a stretto contatto con santa Marta e che si è costituito, a sorpresa, come parte civile insieme allo Ior, la banca di Dio protagonista di infiniti scandali ma stavolta iscritta nella parte giusta della lavagna.

Come per contrappasso mai s’erano visti incriminati i vertici dell’Autorità di informazione finanziaria, i detective dell’antiriciclaggio accusati invece di abuso d’ufficio per non aver vigilato in maniera adeguata i cancelli del pollaio. Poi finito preda, questa l’ipotesi dei magistrati Gian Piero Milano, Gianluca Perone e Alessandro Diddi, di volpi affamate. Su tutti i finanzieri d’assalto Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi.

La Santa sede ha chiesto aiuto come mai prima alle procure italiane (quella romana su tutte) e al nucleo di polizia economica della Guardia di finanza. Una collaborazione fondamentale che – teme qualcuno Oltretevere – da ora in poi potrebbe costringere il Vaticano a una piena reciprocità, raramente concessa dalle istituzioni ecclesiastiche quando l’Italia ha provato a indagare su crimini e corruttori nascostisi dietro l’ombra delle mura leonine.

Il maxiprocesso ha pure un respiro inedito, di portata “siciliana”, con decine di rivoli di inchiesta che saranno squadernati di fronte all’opinione pubblica mondiale. Molti di questi nemmeno si lambiscono: si passa dalla presunta truffa perpetrata sul palazzo di Sloane Avenue di Londra alle “estorsioni” milionarie di Torzi per restituire il controllo dell’immobile, fino ai denari girati da Becciu alla cooperativa del fratello in Sardegna e alle vicende misteriose che girano intorno a Cecilia Marogna, Mata Hari di origini sassaresi assunta dall’ex sostituto per operazioni di intelligence. Missioni (segrete?) finora mai davvero illuminate in ogni anfratto, e che promettono, grazie alla vetrina garantita dal processo, nuovi scandali da prima pagina.

Papa e monarca

La spettacolarizzazione del procedimento è uno dei rischi che Francesco e i suoi promotori hanno deciso di correre per arrivare a sentenza e, soprattutto, a una verità giudiziaria su una storia che ha spaccato la città santa. Ma leggendo le quasi 500 pagine con cui i pm hanno definito le accuse per l’eterogenea compagnia è evidente che la posta in gioco è molto più alta.

Gli obiettivi del giudizio universale sono infatti chiari: segnalare urbi et orbi che l’azione anticorruzione di Bergoglio non guarda in faccia a nessuno, e tentare di recuperare parte dei soldi bruciati nell’acquisto del palazzo, a oggi difficilmente quantificabile ma non inferiore – dicono le stime più prudenziali – ai 50 milioni di euro. Dividere salomonicamente buoni e cattivi, però, non sarà un’operazione facile. Il tentativo semplificatore appare evidente, ma la realtà dei fatti – anche a leggere le sole carte dell’accusa – sembra assai più tendente al grigio rispetto a quella bianco-nera ipotizzata.

Non sarà nemmeno ovvio, per i comunicatori di Francesco, convincere i media (soprattutto quelli stranieri, meno inclini alla moral suasion vaticana) che una teocrazia è davvero capace di organizzare un processo equo, in cui si garantisce come nelle moderne democrazie occidentali l’indipendenza di ogni parte e il diritto alla difesa.

La possibilità di difendersi con avvocati scelti anche al di fuori di quelli rotali è comunque un passo avanti rispetto al recente passato. Ad oggi però in pochi scommettono sull’assoluzione degli imputati. E questo non tanto per l’esistenza di prove schiaccianti sul «sistema marcio» che sarebbe stato organizzato dal sostituto, ma perché il proscioglimento di nomi eccellenti sconfesserebbe non solo il lavoro dell’accusa, ma l’agire stesso del pontefice. Che già dieci mesi fa ha duramente censurato (con lo scardalinamento di Becciu e licenziamenti in tronco dei dipendenti coinvolti) quasi tutti i protagonisti della vicenda. Perché a suo parere colpevoli, al di là del giudizio degli uomini, di aver minato per sempre la sua fiducia.

Il compito del collegio giudicante, che è stato scelto dal papa-monarca come del resto i promotori di giustizia e i vertici della gendarmeria, è dunque arduo. Sembrare “terzi” e autonomi è, ontologicamente, un’impresa: il papa per sciogliere gli inquirenti da ogni vincolo giuridico preesistente ha firmato “rescritti” che hanno cambiato in un amen le vecchie leggi vaticane, consentendo ai magistrati azioni prima inammissibili. Ha poi postulato d’emblée – nonostante pratiche discutibili ma consolidate da decenni – che investire i soldi dell’Obolo fosse reato tout-court. Da monarca assoluto, ha pure modificato dopo l’inizio dell’indagine le norme sui cardinali, fino all’altro ieri giudicabili solo da un collegio di loro pari. Tutte scelte che verranno criticate fortemente dalle difese.

Gatti e volpi

Una prima prova d’indipendenza si avrà leggendo le liste dei testimoni ammessi: l’accusa finora ha lasciato infatti fuori dalla mischia i fedelissimi di Francesco (in primis il segretario di Stato Pietro Parolin e il sostituto Edgar Peña Parra, miracolosamente rimasto fuori dal processo insieme al “grande pentito”, monsignor Alberto Perlasca), ma è probabile che gli imputati chiedano la loro escussione, a loro dire centrale per potersi difendere compiutamente dalle contestazioni.

Se lo show potrebbe imbarazzare il Vaticano più di quanto ci si aspetti, l’impianto accusatorio resta comunque poderoso, e per molte parti le evidenze sono inquietanti. Ma prove schiaccianti di corruzioni a catena e di mazzette da capogiro finora (l’inchiesta continua infatti sottotraccia) non sono state individuate. Becciu ha commesso gravi errori nella gestione del denaro, soprattutto girando somme alla diocesi di Ozieri e alla cooperativa del fratello, certamente in pieno conflitto di interesse. Ma dei “centinaia di milioni di euro nascosti all’estero” di cui ha parlato qualche giornale, non c’è traccia nelle carte.

Mentre altri tribunali stranieri chiamati a pronunciarsi sulla vicenda palazzo (l’Alta corte di Londra, violentemente criticata dai promotori nel dispositivo di rinvio a giudizio) hanno evidenziato che a parer loro lo scandalo del palazzo di Chelsea sia figlio non di frode e corruzione, ma dell’incapacità da parte dei preti ambiziosi di gestire business così complessi. Soprattutto quando decidono – di loro sponte – di sedersi al tavolo degli affari con il gatto e la volpe. Francesco vuole ora sapere se si tratta di un pasticcio alla Pinocchio, o se dietro lo schermo dell’inettitudine si celi una spoliazione volontaria e criminale delle casse vaticane. Il giudizio universale è iniziato, e comunque vada non sarà un processo indolore.

 

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