C’era una volta l’Unar, l’ufficio antidiscriminazioni interno al dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio. Un organismo nazionale, istituito in attuazione di una direttiva europea, «autonomo e indipendente». Un lavoro decennale alle spalle contro tutte le discriminazioni, incluse quelle omotransfobiche. C’è ancora, in teoria.

Tuttavia, da quando è presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che nel 2017 chiese l’immediata chiusura tramite un’interrogazione parlamentare, lavora un po’ meno. Qualche convegno e concilianti comunicati stampa. L’Unar risponde al vento della politica come la più docile e temprata delle vele.

Al timone c’è Mattia Peradotto, ex FutureDem, ex tesoriere di Italia viva, ex segretario particolare della ministra per le Pari opportunità e la Famiglia del governo Renzi, cioè Elena Bonetti, ma anche fedelissimo del deputato Francesco Bonifazi, tesoriere di Iv come lo fu nel Pd con Matteo Renzi segretario. Peradotto era proprio al fianco del leader di Italia viva il mese scorso, in occasione della Festa dell’Unità di Pesaro.

Può vantare un curriculum di studi e formazione che esclude le pari opportunità: laurea in ingegneria gestionale, esperienze lavorative in aziende come Technogym e L’Oréal. Trentacinque anni, una traiettoria di vita che gli permette di attraversare in bilico equilibri di potere e poltrone che come sempre rischiano di saltare se si disturba il manovratore.

L’Unar sotto la sua direzione resta immobile. Tecnica vincente. Fingersi morti mentre gli altri si sbranano salva la vita. Adesso però sull’organismo delle pari opportunità pendono tre questioni che rischiano di far saltare questa tecnica della tanatosi: due direttive dell’Unione europea da attuare entro due anni.

Più precisamente la 1499 del 7 maggio 2024 e la 1500 del 14 maggio, che ridefiniscono le caratteristiche degli organismi nazionali di parità, come viene considerato in Italia l‘Unar.

La richiesta: che si occupi di tutte le discriminazioni in campo a 360 gradi. Una falla visibile negli ultimi anni, con strategie ridotte a scatole vuote o dimenticate in un cassetto. Il secondo obbligo, invece, prevede che diventi un organo realmente indipendente. L’Unar ha invece dimostrato negli anni il contrario.

L’Ue: «Inefficiente»

Ci sarebbe poi una terza questione. Secondo quanto risulta a Domani, entro la fine del mese di ottobre uscirà il Report sull’Italia dell’Ecri (European commission against racism and intolerance) del Consiglio d’Europa, dopo una ricerca sul campo durata un anno. Il report è pronto, aspetta solo l’approvazione del Comitato dei ministri.

Gli osservatori denunceranno l’inadempienza del nostro paese per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e l’inefficienza dell’organismo che dovrebbe farne da garante: «Abbiamo indagato sia lo stato legale di Unar, la sua indipendenza e la capacità di servire come un effettivo organo di uguaglianza, sia la situazione di effettiva uguaglianza delle persone Lgbt in Italia, quindi i crimini di odio, quelli di hate speech e l’inclusione di minoranze, specialmente rom e migranti», dice un’autorevole fonte vicina al dossier.

Che il nuovo governo abbia scelto di tirare un freno con la complicità del direttore era tutto già scritto in una storia di restituzione, potere e vendetta. Era il 2015, la leader di Fratelli d’Italia protestava di fronte a Montecitorio con un bavaglio alla bocca per un richiamo dell’Unar su alcune frasi rilasciate a un quotidiano online.

In quel tempo la stazione Tiburtina era divenuta un centro di accoglienza per migranti, e l’allora candidata a sindaco della Capitale dichiarava: «Basta immigrazione da paesi musulmani. La (piccola) quota di immigrati che reputiamo necessaria prendiamola da quei popoli che hanno dimostrato di non essere violenti».

Un’invettiva contro le persone musulmane che portò l’organo anti discriminazione a scrivere una lettera di ammonimento indirizzata proprio a Meloni: «Esaminando con attenzione il contenuto delle affermazioni attribuite a lei, quest’ufficio ritiene che una comunicazione basata su generalizzazioni e stereotipi non favorisca un sollecito e adeguato processo di integrazione e coesione sociale». Unar invitò per altro la parlamentare a «voler considerare, per il futuro, l’opportunità di trasmettere alla collettività messaggi di diverso tenore».

Meloni gridò alla censura di Stato, ricevette anche la solidarietà di Renzi, che da presidente del Consiglio pensò bene di mandarle un mazzo di fiori. Risultato: l’Ufficio antidiscriminazioni razziali venne di fatto silenziato e l’allora direttore Marco De Giorgi non fu riconfermato.

La crociata di Meloni

Nel 2017 Meloni chiese nuovamente la chiusura per una serie di finanziamenti a club e associazioni Lgbt, insieme lei il gruppo parlamentare Idea della quale faceva parte l’attuale ministra delle Pari opportunità Eugenia Roccella di cui, caso vuole, oggi è diretta responsabile.

Nel 2024 poca cosa è quello che resta dell’unico ufficio nazionale che negli ultimi anni si è occupato di lotta alla discriminazione. Prendiamo la strategia Lgbt, prevede impegni a sostegno della comunità arcobaleno, un progetto triennale finanziato con fondi europei che già esistono, a scadenza breve.

I fondi arrivano dalla Commissione europea con il governo Conte II. Si presenta, carte alla mano, come un atto amministrativo firmato dal direttore Mattia Peradotto. Siglato eppure messo nel cassetto: «Ci hanno detto che per loro tutto passa dal finanziamento dei centri antiviolenza per le persone Lgbt», sostengono gli attivisti.

Ma anche lì, un lavoro chirurgico imposto dalle Pari opportunità è riuscito a stilare un bando che non prevede l’istituzione di nuovi centri dove possono trovare riparo le persone picchiate e buttate fuori casa. Ma solo il finanziamento dei pochi già esistenti.

Si lamentano le associazioni Lgbt, che però a viso aperto non parlano, il rischio: ritorsioni e perdere anche quei pochi finanziamenti con cui sostengono una comunità nel mirino del governo. «L’Unar è diventato una scatola vuota che per il momento dispone di una sola cosa: il direttore», è il refrain nelle stanze del ministero. Eppure la strategia ci sarebbe, anche se a scadenza (2021-2025), prevede buone pratiche su lavoro e welfare, salute, sicurezza, carceri, educazione, formazione, sport, cultura la comunicazione. Non è mai stata approvata come decreto ministeriale, ma semplicemente presentata alla presidenza del Consiglio, un accumulo di pagine sul tavolo, inutilizzabili per ministeri e regioni che volessero prenderla in considerazione.

Anche sul contrasto al razzismo non rimane che una bella scatola con il fiocco da esibire, vuota. Il dipartimento nel 2021 pubblicò un bando rivolto ad associazioni ed enti operanti nel campo della prevenzione e del contrasto alle discriminazioni etnico-razziali per definire il Piano nazionale di azione contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza 2021-2025.

Più di 120 adesioni, più di sessanta contributi che riguardavano le principali sfide, i fabbisogni specifici e le possibili risposte strategiche da proporre sia in relazione alle misure di prevenzione e contrasto delle discriminazioni etnico-“razziali” sia in relazione alle misure di promozione del principio della parità di trattamento. Di tutto questo resta una bozza nascosta all’occhio del governo, che parla liberamente di sostituzione etnica e invasione.

Paralisi anche sul progetto Fami, il “Fondo asilo migrazione e integrazione”, in parte italiano, in parte europeo, sulle persone immigrate, che consente di finanziare corsi lingue, accoglienza e integrazione. Il dipartimento si limita così a raccogliere gli episodi di discriminazione attraverso un monitoraggio dei media, per poi pubblicare ogni anno un report con dati che non sempre rispecchiano il fenomeno, ma certo lo fotografano.

C’è poi un valzer di antiche amicizie che ritornano. Per capirlo basta analizzare i bandi della manifestazione voluta dal direttore Peradotto sulle città inclusive Irca con la Rete europea delle città contro il razzismo (Eccar), realizzata nella settimana contro il razzismo tra il 18 e il 24 marzo.

Tra i consiglieri Unar c’è una vecchia conoscenza di Peradotto: Benedetto Zacchiroli, già seminarista, ex girotondino, ex cofferatiano, «teologo e gay», come ebbe a sintetizzare nel giorno del suo coming out, ma soprattutto ex consigliere personale di Renzi. Oggi è lui il presidente di Eccar. Assunto con contratto di un anno dalla ministra Roccella con un compenso lordo di cinquantamila euro annui. Tessere di un mosaico che si ricompone, in un gioco di potere trasversale.

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