É arrivata in Calabria. In tre l’hanno accusata di essere la capitana. Ora è detenuta. E le hanno tolto il figlio piccolo con cui è arrivata in Italia
Marjan Jamali ha 29 anni, è partita dall’Iran con il figlio di 8, è arrivata in Turchia e si è imbarcata con un altro centinaio di persone a Marmaris. Dopo cinque giorni di navigazione, soccorsi dalla Guardia costiera italiana, sono sbarcati sulle coste calabresi. Alcuni articoli l’hanno descritta come la prima scafista donna, hanno parlato di «quote rosa tra i trafficanti» e via dicendo. È stato scritto anche che non era il suo primo viaggio, che gestiva la parte economica di un sistema illegale, intascando i soldi di chi voleva arrivare in Italia. Ma la storia non è esattamente così, come emerge da alcuni documenti inediti letti da Domani. Inoltre, la difesa punta molto su una ricevuta di pagamento del viaggio, il suo primo, da passeggera dalla Turchia all’Italia.
Acquistato in un’agenzia di Teheran, le è costato 14mila dollari: 9mila per sé e 5mila per il figlio. «Ha raccontato di aver subito molestie sessuali durante la traversata da due persone che poi l’hanno accusata di aver guidato la barca. Uno di questi le ha detto esplicitamente che quel rifiuto l’avrebbe pagato caro», racconta l’avvocato di Jamali, Giancarlo Liberati.
Sbarcata in Italia è stata subito accusata da tre uomini, due iracheni e un iraniano, di essere stata un membro dell’equipaggio. Ed è stata proprio la testimonianza di tre persone su 102 passeggeri ad aver giustificato il suo arresto il 30 ottobre 2023 per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Testimoni sentiti appena dopo lo sbarco, e mai più rintracciati. Peraltro le loro dichiarazioni, così come quelle di Jamali, sono state tradotte da un interprete iracheno. Non è chiaro come potesse capire e tradurre il farsi, cioè la lingua persiana parlata in Iran, scritta con l’alfabeto arabo ma che non ha nulla a che vedere con la lingua ufficiale irachena, che è appunto l’arabo.
La donna è stata quindi separata dal figlio, affidato a una famiglia afghana accolta nel Sistema di accoglienza e integrazione di Camini. Lei è finita nel carcere di Reggio Calabria, dove si trova da oltre tre mesi. Dal paese in cui vive suo figlio al penitenziario occorrono due ore di viaggio lungo strade dissestate.
Caccia agli scafisti
«Quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo», aveva avvertito Giorgia Meloni pochi giorni dopo la strage di Cutro, annunciando l’aumento della pena fino a 30 anni, con un nuovo decreto, per gli scafisti che «causano la morte di una persona». La strategia politica e mediatica del governo Meloni è quindi criminalizzare chi viaggia e convincere di poter fermare il traffico di esseri umani individuando chi ha operativamente guidato la barca. Ma ormai è accertato che gli “scafisti” sono spesso migranti messi al timone, senza alcuna connessione con l’organizzazione dei trafficanti.
«Nei posti di approdo siciliani e calabresi, le procure e la polizia giudiziaria hanno l’unico obiettivo di trovare in ogni imbarcazione uno scafista», spiega l’avvocato Arturo Salerni, che ha seguito molti di questi casi. E, quindi, succede che allo sbarco «i passeggeri che vengono sentiti dalla polizia giudiziaria per identificare lo scafista spesso vengono incentivati a indicare il capitano e i membri dell’equipaggio tramite la promessa del rilascio di un permesso di soggiorno», è scritto nel rapporto “Dal mare al carcere” del 2021, di Arci Porco Rosso e Alarm Phone. Ma non viene chiesta alcuna informazione, con poche eccezioni, sui vertici delle organizzazioni criminali.
Raccolta delle prove
Testimonianze raccolte, prosegue Salerni, appena le persone «scendono dalla barca, possiamo immaginare in quali condizioni». La polizia giudiziaria «inizia a fare domande, naturalmente noi avvocati non assistiamo a questa fase, e in quel momento trovano sempre una persona da accusare», spiega, sottolineando che, se venissero effettuati gli incidenti probatori, le dichiarazioni rese all’inizio – in uno stato di trauma e in una lingua che non è la propria – sarebbero vagliate in contraddittorio tra le parti. I testimoni, conclude Salerni, spesso «non ricompaiono nel processo, e i verbali resi nelle indagini preliminari vengono riacquisiti. E un valore spesso eccessivo viene dato dai giudici a considerazioni fatte dagli investigatori spesso non supportate da reali riscontri probatori».
Diritto di difesa negato
Nel canovaccio illustrato da Salerni rientra anche il caso di Jamali: le prove a fondamento dell’accusa sono state raccolte senza garanzie, a partire da una lingua che non è la sua.
Nelle carte processuali i nomi, suo e del figlio, e le date di nascita sono errate, le persone che l’hanno accusata si sono rese irreperibili, non è stato, neppure, preso in considerazione il costo enorme del viaggio. E soprattutto chi l’ha accusata non ha fatto alcun riferimento al figlio che viaggiava con lei. «Questo dimostra che non dicono la verità», commenta il legale di Jamali, «perché non è possibile che non abbiano visto il bambino che viaggiava di fianco alla madre». L’equipaggio era composto, spiega Liberati, da quattro persone, due cittadini egiziani, ora in carcere, e due cittadini iracheni, fuggiti. Il pubblico ministero ha inoltre rigettato la richiesta di interrogare Jamali, a cui «continuano a notificare gli atti in arabo», lingua a lei sconosciuta. Resta quindi la violazione del diritto di difesa per la maggior parte dei cosiddetti “scafisti”.
Una linea dura, anche di fronte alla separazione di Jamali dal figlio, tenuta dai magistrati che hanno rigettato la richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere.
«È in uno stato di profondo malessere psicologico», racconta l’avvocato, «l’altro giorno le hanno portato il bambino, era contenta ma quando si sono dovuti separare è stata una piccola tragedia: il bambino non voleva andare via. È l’unica cosa che ha nella sua vita». L’avvocato racconta anche i tentativi della donna di compiere gesti estremi, come la massiccia assunzione di farmaci o il segnale lanciato al suo difensore di volersi impiccare.
Jamali non è la sola iraniana detenuta in Calabria e accusata di essere una scafista. A Castrovillari è detenuta Maysoon Majidi, attivista curdo-iraniana.
Majidi e Jamali ora rischiano un processo e condanne da 2 a 20 anni. Per accuse raccolte all’esito di una traversata in condizioni drammatiche. Ma la storia giudiziaria insegna che gli scafisti che fanno comodo al governo tali, in realtà non erano.
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