Comincia sabato 19 agosto a Budapest la diciannovesima edizione dei Mondiali di atletica leggera, a quarant’anni di distanza dalla prima di Helsinki. In mezzo tra l’una e l’altra c’è un panorama ribaltato. Asia e Africa non vinsero neanche un oro. Oggi l’evoluzione dei paesi emergenti tocca anche quelle discipline nelle quali non hanno una scuola
Dopo epici scontri tra tedeschi dell’est e dell’ovest, russi, ceki, lituani, estoni e americani, ora sul piatto è stato messo un altro disco. Quando i Mondiali di Budapest stanno per prendere il via, oggi, tra i primi dieci del lancio dal gesto molto classico, molto scultoreo, ci sono tre giamaicani, un samoano, un austriaco e uno sloveno XXXL, Cristjan Ceh (che ha l’aspetto di Clark Kent prima che si trasformi in Superman) e che ha buone chances di concedere il bis. Resiste la Lituania grazie al figlio d’arte Mikolay Alekna, progenie del formidabile Virgilius, ex-guardia del corpo del presidente della repubblica.
La presenza di uno svedese, Daniel Stahl, detto l’orso ballerino, riporta ai tempi chimicamente disinvolti di Ricky Bruch. Gli americani sono spariti. In compenso le ragazze si sono messe a lanciare, soprattutto il martello. Insomma: la geografia classica è saltata per aria. Il giavellotto ha iniziato la sua mutazione a Londra 2012, con la vittoria di Keshorn Walcott, di Trinidad e Tobago, che ha ricevuto in dono un’isoletta con un faro. Quel buonanima di Janis Lusis, sovietico e lettone, diceva che il giavellotto era una faccenda riservata ai baltici. Ora non ce n’è uno che possa accampare ambizioni. I dominatori degli ultimi anni (Walcott, Peters di Grenada, Chopra indiano) vengono da paesi dove lo sport principale è il cricket. Qualcosa vorrà dire.
La metamorfosi
Tutto cambia. Una delle più forti velociste, Julien Alfred, grande protagonista della stagione universitaria americana e capace di lasciare il segno anche nelle sue prime esibizioni europee, è nata a St Lucia, bella isola dei Caraibi orientali, 179.000 abitanti. E chi poteva immaginare che il Botswana, un tempo British Bechuanaland, sarebbe diventato una fucina di quattrocentisti: quest’anno nove tra 44 e 45 secondi.
Tra loro, Letsile Tebogo che al giro di pista si dedica episodicamente. A Budapest sarà una delle stelle dei 100 e soprattutto dei 200 dopo il 19.50 londinese, quando ha minacciato il dominatore Noah Lyles, lo spaccone della Florida che si è messo in testa di battere il record mondiale, 19.19, di Usain Bolt. Per ora, Noah, protagonista di una storia e di miseria e di riscatto, è l’uomo sceso più volte (trentacinque) sotto i 20 secondi. Si dice: il mondo è bello perché è vario. L’atletica, in questo senso, è stupenda.
Lo è sempre stata. Vent’anni fa il titolo mondiale dei 100 andò a Kim Collins, di St Kitts e Nevis: oggi il favorito è Zharnel Hughes, nato nell’altra isoletta (14.000 abitanti) che un tempo formava con le altre due una mini-federazione e che adesso è tornata allo status di territorio oltremare della Corona: Anguilla. Hughes corre per la Gran Bretagna, vive in Giamaica, è allenato da Glen Mills, l’uomo del miracolo Bolt, e a New York, a giugno, ha interpretato la distanza con modalità perfette: 9.83, a tre centesimi dal record europeo di Marcell Jacobs. E sui 200, 19.73, a un centesimo dal primato continentale che Pietro Mennea detiene da quasi 44 anni.
Le nuove frontiere
Lo scenario è un caleidoscopio: pietruzze colorate che ruotano e incantano: Lo Zambia, la vecchia Northern Rhodesia, presenta Muzala Samukonga, campione del Commonwealth e sceso sotto i 44.0. Felix Sanchez ha aperto la strada, Luguelin Santos l’ha spianata e ora la Repubblica Dominicana (da non confondere con la piccola Dominica che ha un’eccellente triplista, Tia Lafond) è diventata una potenza nei 400 donne con Marileidy Paulino e Fiordaliza Cofil ed è campione mondiale in carica nella 4x400 mista, l’unica novità che la federazione internazionale ha inserito nel programma. In tempi di sminuzzamento e parcellizzazione degli eventi un atteggiamento apprezzabile.
Joe Fahnbulleh e Emmanuel Matadi sono cresciuti in America, in fuga dalla guerra civile endemica che insanguina il loro paese, ma in pista vanno per la Liberia; Anderson Peters, due titoli mondiali nel giavellotto, è di Grenada, come Kirani James, tre volte sul podio olimpico dei 400 e che dalla sua isola ha avuto in omaggio una avenue; l’irlandese che ha fatto irruzione tra le migliori europee di sempre si chiama Rhasidat Adeleke ed è nata a Dublino da genitori nigeriani, stesse radici di Maro Itoje, seconda linea dell’Inghilterra: Janee Kassanavoid, una delle tre martelliste americane che hanno guadagnato il posto per Budapest, è comanche e un anno fa a Eugene è stata la prima nativa americana a conquistare una medaglia mondiale; Luis Grijalva, rifugiato guatemalteco che ha potuto approfittare di un programma di accoglienza dell’amministrazione Obama (per fortuna non abbattuto dal successore) ha frantumato la barriera dei 13 minuti nei 5000 e punta a un piazzamento nelle zone alte; l’unica chance di vittoria di una sfibrata Germania è affidata a Leo Neugebauer, sassone di pelle scura, studente alla Texas University, nuovo primatista nazionale del decathlon e al vertice della graduatoria mondiale.
C’è anche spazio per la tradizione e la migliore delle interpreti è una piccola mamma: Faith Kipyegon, nativa della Rift Valley, in cinquanta giorni capace di impadronirsi dei record mondiali dei 1500, del miglio, dei 5000 e ora, da bicampionesa olimpica, pronta ad attaccare l’accoppiata 1500-5000, una preda che solo Bernard Lagat ai Mondiali e Paavo Nurmi e Hicham el Guerrouj hanno catturato. L’atletica è la musica che Orfeo suonava alle fiere, ha più macchie del Gattopardo e quando cambia non rimane sé stessa.
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