È stata la giornata di un nuovo inizio, la giornata in cui ripartire da numero 5 del mondo. Anche se perdere due finali Slam nel giro di poche settimane, com’è capitato a Jasmine Paolini, fa un male pazzesco. A Parigi era stata surclassata da Iga Swiatek, sull’erba di Wimbledon ha ceduto in tre set contro Barbora Krajcikova.

Sia detto come battuta: anche nell’arrivare a Roma e non vedere il Papa siamo diventati dei numeri uno. Sinner a Parigi ha perso in semifinale da Alcaraz e a Londra nei quarti da Medvedev. A Wimbledon si è sperato nel boom di Musetti, ma quando si è trovato di fronte quel demone che è Djokovic, si è accontentato di giocare colpi spettacolari di ispirazione federeriana. È andata male anche a Jasmine Paloni, al termine di un match più cerebrale che altro.

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Un nuovo inizio è figlio anche del fatto che in tribuna ad assistere alla finale ci fossero Tom Cruise, noto frequentatore di Church Road (anche se meno dell’aficionado Dustin Hoffman) e soprattutto Zendaya, che in Challengers di Guadagnino ha interpretato il ruolo della tennista infortunata che diventa coach. Il sorriso aperto e l’applauso che Cruise ha rivolto a Jasmine Paolini quando la nostra confessava la sua frustrazione per essere arrivata a tanto così (ah quel servizio ceduto nel terzo set quando invece avrebbe potuto incrinare le certezze della ceca...) è sembrato più un’incoronazione che il solito battimani per la perdente. Tom, che di missioni impossibili dicono se ne intenda, è parso stupito dalla spontaneità e dell’unicità che oggi Paolini rappresenta nel tennis contemporaneo. Esattamente le caratteristiche, emerse in modo più nitido anche grazie alla sconfitta (quando si prova dolore è molto più difficile fingere) di cui il tennis femminile ha bisogno in questo momento storico.

Non sarà un’avventura

Due finali Slam dicono che Jasmine Paolini non è un fenomeno passeggero. E che le sue non fragili spalle potrebbero dover reggere il ruolo di storia più importante del tennis femminile di oggi. Se nel suo bagaglio tecnico c’è ancora qualcosa che può essere migliorato e in quello strategico pure (ieri non ha compreso fino in fondo che solo dimostrando di essere una tennista-alfa nel senso di dominante, avrebbe avuto ragione della Krejcikova) la sua essenza va preservata. Non solo perché, dopo il ritiro di Muguruza e la fase calante di Maria Sakkari, è bello che ci sia anche una rappresentante della vecchia Europa occidentale nel gotha del tennis; ma soprattutto perché, a differenza delle sue colleghe, Paolini non appare come un semplice prodotto dell’industria sportiva, costruito per giocare-vincere-salire su un aereo-rigiocare eccetera. Ha le qualità agonistiche di una vincente e il volto per rivelarsi antitetica alla maggioranza delle colleghe, sul piano della comunicazione e dell’immagine. Se poi riuscirà anche a vincere uno Slam, meglio.

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Intanto incombono le Olimpiadi. E il tennis italiano, con Paolini in testa, si presenterà a Parigi con la fondata ambizione di portare in Italia il maggior numero di medaglie. Rivaleggiando con atletica e nuoto. Non male per uno sport che fino ad oggi, ai Giochi, ha conquistato una sola medaglia: il bronzo lontano del barone de Morpurgo in singolare sempre a Parigi ma nel 1924. Sui campi del Roland Garros, Paolini correrà per vincere singolare e doppio in compagnia dell’amica e consigliera Sara Errani. Nel maschile, ca va sans dire, si punta all’oro con Sinner e al podio con Musetti. Stessa ambizione per il doppio maschile Vavassori-Bolelli; e perché non concedere una chance anche al probabile misto Vavassori-Errani? I Giochi di Parigi potrebbero rappresentare la santificazione del tennis italiano di oggi.

A proposito di sogni: oggi a Wimbledon si giocherà la finale maschile dove la vera storia è quella di Nole Djokovic. Come sia riuscito ad arrivare in finale dopo una prima metà dell’anno in cui è parso quasi un ex e in cui ha smantellato il team che prendeva a male parole è quasi un mistero. Al Roland Garros si era ritirato dopo aver battuto Cerundolo e si è sottoposto a un intervento al ginocchio sinistro. Vero è che a Londra non ha dovuto affrontare avversari insuperabili: però rivederlo contro Alcaraz nella replica della finale dell’anno scorso è sorprendente. Fino a un certo punto: pure lui è un esperto di missioni impossibili, mica solo Tom Cruise.

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