La storia della pausa pranzo in Italia è un'avventura sindacale fatta di scontri e alterne vicende. È dai primi decenni del Novecento i refettori concedono ai dipendenti almeno uno spazio dedicato e la possibilità di scaldare il pranzo portato da casa.
Pochi sanno che il primo social eating è stata la mensa sul posto di lavoro, altro che piattaforme digitali. Non è stata un regalo, ma una conquista sindacale per niente facile, fatta di battaglie durate un secolo. Certo, ci furono eccezioni come nell’Inghilterra della Rivoluzione Industriale, nel villaggio operaio di New Lanark, dove la prima mensa venne attivata addirittura nel 1780. Ma fu un caso singolo. Il resto fu tutto da conquistare.
Socialità e pasto caldo
In Italia a inizio Novecento la pausa pranzo aveva un suo tempo ma non un suo spazio. Gli operai mangiavano in giro per lo stabilimento, all’aria aperta se il tempo lo consentiva, direttamente dalle gavette, contenitori metallici con dentro il cibo portato da casa e preparato la sera prima.
Particolare non secondario, si mangiava da soli, accanto alle macchine puzzolenti o fumanti degli stabilimenti. Il cibo era ovviamente freddo, perché non c’era modo di riscaldarlo. Per la verità per alcuni un modo c’era: mettere la gavetta proprio sulle macchine fumanti e quindi calde. Si rischiava l’intossicazione ma si otteneva il tanto desiderato pasto caldo.
Nella prima metà del Novecento arrivò il refettorio. Non era ancora una sala mensa ma un luogo dove si mangiava insieme e dove si trovava uno scaldavivande, un boiler ad acqua calda all’interno del quale si metteva la gavetta di metallo con dentro quanto portato da casa. Socialità e pasto caldo arrivarono quindi di pari passo, almeno nelle fabbriche degli imprenditori più illuminati.
Chiesti a gran voce dai sindacati, i refettori non furono infatti accettati ovunque. Alcuni capitani d’industria capirono che la misura poteva tornare utile anche a loro, contribuendo a un luogo di lavoro più vivibile e a un personale più soddisfatto.
Per i più retrogradi (e più numerosi) si trattava invece di un inutile regalo al dipendente. In questi casi, il pasto caldo arrivò lo stesso, ma fuori dallo stabilimento e per iniziativa privata.
Nei dintorni delle fabbriche più sorde alle nuove richieste nacquero infatti molte piccole osterie economiche che servivano primi o secondi cotti rimediando così all’insensibilità di alcuni.
Il refettorio era una piccola parte di un processo più ampio. Il lavoro di massa diventava vita di massa. Come per il dopolavoro e le ferie, la fabbrica adesso si occupava di tutta l’esistenza del lavoratore, anche quando si svolgeva lontano dai macchinari. Suonava la sirena e si andava tutti a mangiare, finché non risuonava per far tornare tutti al lavoro.
Ma la vera rivoluzione dei refettori fu igienico-sanitaria, e anche per questo fu fortemente voluta dai sindacati: per la prima volta gli operai potevano passare del tempo, seppur breve, in un luogo sano, lontano da scarichi, fumi tossici e macchine maleodoranti.
Obiettivo mensa
Dopo la guerra, la corsa alla conquista di nuovi diritti ripartì. L’obiettivo adesso era la mensa. Le manifestazioni si moltiplicarono e divenne celebre la foto della protesta alla Girola (azienda di costruzione dighe) con cartelloni come: “Siamo stanchi di mangiare nella gavetta” e “I lavoratori della Girola vogliono la mensa e il premio di produzione”. È in questi anni che la pausa pranzo venne inserita in molte contrattazioni sindacali e poi, quando queste ebbero successo, nell’orario di lavoro, passando quindi a carico dell’azienda.
Le prime mense aziendali arrivarono negli anni Sessanta, con il cibo preparato da cuochi e servito sul posto di lavoro. Le battaglie alla Falk, alla Magneti Marelli e in altre fabbriche fecero sì che i lavoratori non si dovessero più portare il pasto da casa. Le sale mensa erano luoghi pensati per stare bene, come quelli progettati da Ignazio Gardella per la Olivetti di Adriano Olivetti, da Giò Ponti per la Montecatini di Milano, da Giulio Minoletti per la Pirelli alla Bicocca e da Gigiotto Zanini per la Carlo Erba.
Certo, non fu una conquista facile. Come per i refettori, alcune aziende si opposero di fronte alla novità e qualche vecchia abitudine resistette per anni: operai e impiegati mangiarono in sale separate fino alla fine degli anni Settanta. Poi anche questa divisione fu abolita. Alcuni operai della Breda raccontano nei documenti raccolti dalla Fondazione Isec il primo giorno di mensa nel 1973: la nuova conquista segnò la fine della differenza tra turnisti, che mangiavano davanti alle macchine continuando a lavorare, e giornalieri, che avevano un’ora di pausa.
Le mense furono ben viste anche perché, oltre a livellare le condizioni dei lavoratori, diventarono presto luoghi della socialità, appunto il primo social eating, dove era possibile leggere i giornali, scambiare idee e, in un secondo momento, tenere assemblee e organizzare occupazioni.
Un diritto presto démodé
La dieta era scelta dal datore di lavoro, era energetica e pensata per una manovalanza che doveva essere sempre forte e pronta a dare il massimo. Da questo punto di vista, le mense aziendali rappresentano l’industrializzazione della pausa pranzo, con il loro cibo massificato e gli orari e i piatti irregimentati. Tutti mangiano lo stesso cibo, alla stessa ora, con le stesse modalità. Da questa percezione negativa scaturì negli anni seguenti la delegittimazione della mensa, che diventò nella cultura popolare sinonimo di luogo noioso, grigio e che serviva cibo scarso in quantità e qualità.
Come spesso accade, una volta conquistato, il nuovo diritto diventò démodé. Negli anni Ottanta tutto ciò che era di massa divenne out.
E allora ecco i buoni pasto, anche questi oggetto di contrattazione sindacale, arrivati con il riflusso, il ritorno al privato e l’abbandono del sociale. Come per chi in quegli anni comprava un auto o un vestito, anche i lavoratori all’ora di pranzo cercavano qualcosa di diverso e estraneo alla massa, e per questo andavano fuori dallo stabilimento a spendere i loro buoni in ristoranti e trattorie.
Certo, il pranzo degli anni Ottanta non era quello del primo Novecento, perché con i buoni si poteva mangiare anche in posti di livello.
Ma sicuramente, il trend rifletteva quello che accadeva più in generale all’interno della società, la ricerca dell’individualità. È un trend che è continuato con il ritorno al pranzo in ufficio nelle piccole cucine con i microonde usati a turno; e ancora oggi con i pranzi velocissimi, di nuovo portati da casa, continuando comunque a lavorare, come succedeva ai turnisti della Breda prima del 1973.
Dovremmo inquietarci? Per qualcuno questi pranzi di oggi rappresentano il trionfo della flessibilità, con il lavoratore che può mangiare quello che vuole salvaguardando la sua identità alimentare (vegana, crudista, fruttariana, etc.).
Per altri, mangiare mentre si guarda uno schermo e si parla al cellulare segna invece l’ulteriore tracollo di una middle class che non è più middle class, e che ha visto il suo livello di vita precipitare anno dopo anno e somigliare sempre di più a quello della vecchia classe operaia, in un’epoca che è in realtà un duro Ottocento nascosto sotto gli abiti scintillanti della tecnologia. Un’epoca meno sindacale e molto più post-industriale.
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