Le modalità di esecuzione dell’omicidio, condotto con determinazione e con un unico colpo a distanza ravvicinata alla nuca, escludevano l’ipotesi che il delitto fosse stato fatto da qualche balordo. Ma non mancavano i depistaggi: la sottrazione del borsello e la dinamica del fatto, all’inizio sembravano non portare a Cosa Nostra
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a don Pino Puglisi, parroco che aveva sfidato i boss del quartiere Brancaccio a Palermo offrendo ai ragazzi un’alternativa ai fratelli Graviano, ucciso nel 1993.
Le indagini relative all’uccisione di don Pino Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano di Brancaccio, prontamente avviate dagli organi inquirenti all’indomani del grave fatto di sangue, inizialmente venivano orientate in ogni ragionevole direzione di approfondimento, non scartando nessuna pista investigativa, comprese quelle fornite da notizie anonime pervenute agli organi di polizia.
Si è proceduto, innanzi tutto, ad un accurato sopralluogo, nel corso del quale, come già detto, veniva rinvenuto qualche rivolo di sangue, ma non anche segni eclatanti di un omicidio.
Nelle vicinanze del posto dal quale era stato rimosso il corpo del reverendo veniva trovato un bossolo 7 e 65, calibro confermato dal proiettile rinvenuto in sede autoptica.
L’esame del proiettile, poi, ha evidenziato che questo aveva attraversato la canna di una pistola munita di congegno di silenziamento.
Sul corpo del sacerdote non sono stati riscontrati segni di colluttazione: si è giunti, quindi, alla conclusione che egli era stato colto di sorpresa.
In un primo tempo si era pensato ad una rapina perché sui luoghi non è stato rinvenuto il borsello che Don Puglisi portava sempre con sé. Tale ipotesi, però, è stata scartata sia per le modalità dell’aggressione e per l’uso dell’arma silenziata, sia per il ritrovamento di una somma di denaro di lire un milione cinquecento cinquanta mila e di cento dollari USA nell’abitazione della vittima.
Del pari, le stesse modalità di esecuzione dell’omicidio, condotto con fredda determinazione e perpetrato con un unico colpo esploso a distanza ravvicinata alla nuca, escludevano l’ipotesi che il crimine fosse stato opera di qualche balordo o fosse legato alla condotta d’impeto di un tossicodipendente.
Ma, ben presto, nel variegato panorama investigativo riguardante l’omicidio del povero sacerdote, la vera matrice ed il reale movente dell’atroce scelta assassina veniva in rilievo, grazie al coraggio civile di chi aveva creduto nell’insegnamento di don Pino.
Dalle minuziose indagini condotte sulla vita dell’ucciso, infatti, emergeva, fin dai primi atti investigativi, che il vero movente dell’omicidio era da ricercare nell’attività di impegno sociale e pastorale portato avanti dallo stesso.
Il reverendo, dal giorno della prelatura presso la chiesa di San Gaetano in Brancaccio, infatti, aveva portato avanti una serie di iniziative volte al recupero sociale dell’ambiente degradato di quel quartiere.
Si accertava, in particolare, che lo stesso aveva profuso un grande impegno nel tentativo di costruzione di centri di accoglienza, di acquisizione di alcuni locali da destinare a scuola media, di attivazione di altre opere di aggregazione sociale; e si era attivato anche per recuperare i tossicodipendenti ed aiutare i diseredati ed i bisognosi.
Le prime indagini
Emergeva, altresì, sin dalle prime fasi delle indagini, che diversi ed inequivocabili segnali intimidatori avevano preceduto il terribile atto omicidiario: numerosi ed ultimativi erano stati gli inviti ad accettare il consolidato e triste potere criminale mafioso che regnava sovrano nel territorio urbano di Brancaccio, un quartiere tra i più degradati della città di Palermo.
Ma, altrettanto forte e decisa era stata la scelta del prete di continuare l’opera laica di recupero sociale alla quale si era attivamente dedicato sin dal primo giorno del suo apostolato presso la chiesa di San Gaetano di Brancaccio e che lo aveva portato ad entrare in contrasto con le forze politiche che allora reggevano il Consiglio di quel quartiere e, in special modo, con l’organizzazione criminale che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era la sua consolidata permanenza.
La continua e ben corrisposta attività di evangelizzazione, tradizionalmente opposta alla logica della violenza e del terrore, e l’intensa opera di aggregazione e di recupero sociali, rappresentavano un consistente pericolo per l’organizzazione criminale che da tempo regnava sovrana nel quartiere di Brancaccio. Da qui gli avvertimenti inequivocabili e le intimidazioni. I primi atti intimidatori sono stati due distinti attentati incendiari.
Il 29 maggio 1993 l’impresa Balistreri di Bagheria, aggiudicataria dell’appalto relativo ai lavori per la ristrutturazione del tetto della parrocchia di San Gaetano, subiva un attentato incendiario ad un proprio autocarro parcheggiato in un’area antistante l’edificio ecclesiastico.
L’episodio delittuoso non era stato denunciato dal Balistreri agli organi di polizia. Padre Puglisi, però, nel corso dell’omelia della messa domenicale ne aveva parlato ed aveva anche pronunciato espressioni dure e pesanti contro gli ignoti attentatori ed il modo illecito con cui venivano gestiti gli appalti. Ciò, evidentemente, aveva destato scalpore in un quartiere da sempre assoggettato ad un pesante clima di omertà e tradizionalmente soggiogato alla mafia.
Il 29 giugno successivo, Guida Giuseppe, Romano Mario e Martinez Giuseppe, persone impegnate in attività sociali e componenti del Comitato Intercondominiale di Via Azolino Hazon, presieduto e diretto da don Pino Puglisi, subivano contemporaneamente degli attentati incendiari alle porte di ingresso dei rispettivi appartamenti, dagli stessi regolarmente denunciati.
Ed anche in tale occasione il sacerdote aveva preso pubblicamente posizione, commentando negativamente e deprecando l’accaduto in alcune omelie delle messe domenicali, dicendo chiaramente che gli atti incendiari erano rivoli indirettamente alla sua persona ed al contempo esternando le sue preoccupazioni per eventuali nuove iniziative che danneggiavano l’ambiente, mettendo anche in pericolo la gente del quartiere.
Ancora. Dalle indagini emergeva, altresì, che un ragazzo, di nome Lipari Antonino, il quale operava nella parrocchia di San Gaetano, per ben tre volte era stato avvicinato ed intimorito da sconosciuti, che lo avevano minacciato di bastonate e gli avevano intimato di non frequentare più la chiesa. L’ultimo episodio era stato il più grave, giacché era stato aggredito con un coltello e gli era stata strappata la maglietta.
In tale occasione padre Puglisi lo aveva esortato a non avere paura e gli aveva fatto presente che anch’egli aveva ricevuto minacce a mezzo posta e per telefono, cui non aveva dato peso.
Le gravi minacce e le intimidazioni, quindi, non si erano limitate alle persone vicine al sacerdote, che con lui collaboravano e nel cui operato si riconoscevano, ma erano state estese, poi, direttamente a don Giuseppe Puglisi, anche se da quest’ultimo mai esplicitamente denunciate agli organi di polizia o alla magistratura e che, però, nelle conferenze pubbliche e nelle riunioni private, erano state manifestate con una serena aspettativa e cristiana speranza per il futuro.
Fin dai primi atti investigativi, quindi, emergeva in modo univoco che il movente dell’omicidio era da ricercare unicamente nell’attività di impegno sociale e pastorale portato avanti dal sacerdote.
Peraltro, il rinvenimento a casa della vittima della somma di lire un milione cinquecentocinquanta mila e di una banconota di cento dollari, unitamente alle concordanti circostanze che il corpo dell’ucciso non presentava nessun segno di colluttazione e che lo stesso aveva l’abitudine di circolare con poco denaro addosso - cosa questa in linea col suo stile di vita improntato all’essenzialità ed alla povertà - escludevano tra i moventi possibili quello dell’omicidio a scopo di rapina.
Le stesse modalità di esecuzione dell’omicidio, infine, condotto con fredda determinazione e con un unico colpo esploso a distanza ravvicinata alla nuca, escludevano parimenti l’ipotesi che il crimine fosse stato opera di un qualche balordo o legato alla condotta d’impeto di un tossicodipendente. Si manifestavano, pertanto, evidenti depistagli: la sottrazione del borsello e la dinamica del fatto, invero, non erano consone con le modalità con cui di regola vengono eseguiti e perpetrati gli atti omicidiari in “Cosa Nostra”.
Il movente del delitto
Il delineato movente dell’omicidio si rafforzava sempre di più con l’audizione di quanti, uomini e donne, avevano collaborato con l’ucciso nella sua opera quotidiana, i quali tratteggiavano la figura e l’impegno religioso e sociale del prete.
Le indagini sull’assassinio di Giuseppe Puglisi subivano un salto di qualità allorquando Drago Giovanni, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio e dichiarato esecutore di numerosi omicidi, collaborante di giustizia, appreso dell’efferato omicidio avvenuto in quello che era stato il suo territorio, il quartiere di Brancaccio, sentiva il bisogno di rendere alcune importanti dichiarazioni. Si rafforzava così maggiormente l’impianto accusatorio fino a quel momento promosso, sia in relazione al movente, sia in relazione alle intuite responsabilità dei cosiddetti reggenti della famiglia mafiosa di quella periferia.
Dunque, questo primo collaboratore di giustizia, nell’ambito delle indagini per l’omicidio di Don Pino Puglisi, riferisce il quadro ed il perché “Cosa Nostra” prende la decisione di eliminare il sacerdote. Per cui, in questa prima fase, le dichiarazioni di Drago sono nel senso che apprende da Folonari, uomo d’onore della stessa famiglia, in quanto tutti e due di Brancaccio, che nel quartiere c’era apprensione data dalla presenza di questo parroco coraggioso, impegnato nel sociale ed in tutto ciò che era antimafia, il quale, pertanto, doveva essere punito.
Dunque, da questo momento, le forze investigative cominciano a penetrare nel contesto in cui Don Pino Puglisi operava, il contesto ambientale di Brancaccio, e ad approfondire il fastidio che detto prete dava alla criminalità organizzata di quello scacchiere mafioso.
Le indagini, cioè, sono state indirizzate in un ambito investigativo ben preciso, vale a dire su quello che è il fenomeno omicidiario nell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, che, come già è stato pacificamente dimostrato, con sentenze ormai divenute irrevocabili da tempo, ha delle regole ben determinate e dei moventi altrettanto precisi al riguardo: la stessa struttura di “Cosa Nostra”, articolata per territorio, influenza molto la scelta omicidiaria di detta associazione mafiosa.
Dunque il Drago riferisce che proprio per la struttura di “Cosa Nostra”, per il modo in cui “Cosa Nostra” è articolata, quell’omicidio, l’omicidio di un sacerdote, l’omicidio di un prete di così grande levatura e di tanto fulgore, non può che essere avvenuto con l’assenso di quelli che erano i riconosciuti capi storici di Brancaccio, cioè a dire di Graviano Giuseppe e Graviano Filippo, i quali risultavano essere stati entrambi condannati per il delitto di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti all’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, e che all’epoca detenevano il governo mafioso di quel territorio.
Il riferimento del Drago alla struttura ed al fenomeno omicidiario in “Cosa Nostra”, portava gli organi inquirenti a sentire un altro collaboratore di giustizia, Cancemi Salvatore. Costui era un uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, nonché membro della commissione di “Cosa Nostra”, cioè dell’organismo di vertice di questa organizzazione criminale.
Dunque il Cancemi, pur non potendo riferire direttamente sull’omicidio, confermava quanto dichiarato dal Drago in ordine alla struttura ed al fenomeno omicidiario in “Cosa Nostra”, per quella che era la sua esperienza aggiornata stante che si era costituito nelle mani delle forze dell’ordine nell’imminenza dei fatti.
Si perveniva, poi, all’audizione di un altro collaboratore di giustizia, Pennino Gioacchino, il quale, apertosi alla collaborazione con la giustizia, ricostruiva in modo organico e qualificato le attività di “Cosa Nostra”, viste però stavolta non in chiave militare, come aveva riferito il Drago ed in parte anche il Cancemi, ma in chiave più altamente politica e di supporto alle attività criminali.
Le indagini, a questo punto, registravano la ennesima dissociazione di soggetti aderenti a “Cosa Nostra” e la loro fattiva e piena collaborazione.
In particolare, iniziavano a collaborare con la giustizia altri due mafiosi: i fratelli Di Filippo Emanuele e Di Filippo Pasquale, a cui si aggiungeva da lì a poco anche Cannella Tullio.
Questi collaboratori di giustizia, i due Di Filippo molto vicini ai Graviano ed il Cannella Tullio addirittura con un particolare rapporto con i Graviano medesimi, non solo rafforzavano il quadro probatorio già esistente a carico dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ma permettevano altresì di identificare anche uno degli autori materiali dell’omicidio in Grigoli Salvatore.
E ciò, perché il contenuto delle loro dichiarazioni, rese nel tempo, è caratterizzato da un dato comune: il riferimento costante ai fratelli Graviano quali reggenti la famiglia mafiosa di Brancaccio e l’indicazione di Grigoli Salvatore quale componente del “gruppo di fuoco” facente capo a certo Mangano Antonino.Per cui, a punto, si determina un quadro che consente di delineare il contesto ambientale in cui il delitto era maturato e di focalizzare il volto e il nome dei mandanti dell’uccisione dell’esponente del clero siciliano, quadro che si riesce a ricostruire attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia proprio su quella che è la struttura di “Cosa Nostra” nel quartiere Brancaccio. Ma si ha anche l’indicazione dell’esecutore materiale in questo Grigoli Salvatore appartenente ad un “gruppo di fuoco” - il “gruppo di fuoco” è una formazione di killer a disposizione delle varie famiglie di “Cosa Nostra” - che era a servizio dei Graviano e di Mangano Antonino, soggetto quest’ultimo appartenente a “Cosa Nostra” che successivamente prenderà il posto dei primi allorché gli stessi verranno arrestati a Milano in una brillante operazione di polizia condotta dai carabinieri del nucleo operativo di Palermo.
I collaboratori di giustizia
Le indagini sull’assassinio di Giuseppe Puglisi subivano un ulteriore impulso allorquando altri noti collaboratori di giustizia rendevano alcune importanti dichiarazioni in ordine all’efferata scelta omicidiaria.
La loro fattiva e piena collaborazione, unitamente alle menzionate dichiarazioni di quanti erano stati vicini all’ucciso e con lui avevano collaborato nella sua opera sociale e pastorale, hanno così rafforzato l’impianto investigativo fino a quel momento promosso, sia in relazione al movente sia per quanto concerne le intuite responsabilità dei cosiddetti reggenti della famiglia mafiosa di Brancaccio.
Tralasciando qui di esporre dettagliatamente il contenuto delle dichiarazioni rese nel tempo dai vari collaboratori di giustizia, quello che è interessante sottolineare in questa sede è il dato comune che le caratterizza: il riferimento costante ai fratelli Graviano sopramenzionati, quali reggenti la famiglia mafiosa di Brancaccio, e l’indicazione, quale esecutore materiale, di questo Grigoli Salvatore, componente del gruppo di fuoco, specializzato nel commettere omicidi, che operava all’interno del mandamento di Brancaccio e che, all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi, faceva capo a certo Mangano Antonino, soggetto appartenente anch’egli a “Cosa Nostra”.
Sulla base di detti elementi certi, le indagini relative all’omicidio che ci occupa, a quel punto, erano sfociate nella emissione di una ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, quali mandanti dell’omicidio del sacerdote, nonché nei riguardi di uno degli esecutori materiale del crimine, Grigoli Salvatore.
Le intense e penetranti indagini preliminari scaturite dall’uccisione di Don Pino Puglisi ed attivamente condotte sia sul contesto mafioso di Brancaccio che in campo nazionale sull’attività criminosa della famiglia di quel quartiere di periferia, sono state chiuse dopo ben due anni con la richiesta del Procuratore della Repubblica di rinvio a giudizio dei tre odierni imputati.
E’ appena il caso di rilevare, poi, che le ulteriori investigazioni hanno consentito di acclarare, in seguito, che l’aggressione sferrata alla Chiesa con l’uccisione di don Pino Puglisi e le altre azioni intimidatorie poste in essere in quel contesto temporale, non erano limitate al territorio di Brancaccio ma erano strettamente collegate ad una più vasta e totalizzante scelta strategica di terrore perseguita a livello nazionale dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, continuata all’indomani dell’assassinio del povero prelato e sfociata negli attentati eclatanti del 1993 a Firenze, Roma e Milano.
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