Il leader leghista sta gestendo in modo spregiudicato il progetto per sopravvivere alla sua crisi politica. Meloni non ha interesse nel sostenere un’operazione incerta, dal consenso insicuro al Sud
Giorgia Meloni deve delle risposte agli italiani sul ponte di Messina e dimostrare che non che nulla c’è da nascondere intorno alle due grandi questioni che peseranno come un macigno sulle discussioni e le scelte dei prossimi anni.
La prima riguarda la fattibilità dell’opera. Perchè deve spiegare perche questa volta è diverso e si sono superate tutte le questioni che avevano portato il Governo di Mario Monti a fermare il progetto.
La seconda è di far assumere i rischi di aumento dei costi del progetto e dei ritardi ai costruttori. Perchè oggi è previsto che tutto sia pagato dallo Stato, comprese le prevedibili nuove spese perchè non esiste neanche un progetto definitivo. Ma se Giorgia Meloni crede davvero nel progetto e vuole spazzare via i dubbi sugli interessi privati deve chiedere al Consorzio guidato da Webuild di metterci la faccia.
Giorgia Meloni deve delle risposte agli italiani sul ponte di Messina. Perché se il governo ha tutta la legittimità di decidere quali opere considera prioritarie, ha anche la responsabilità di spiegare perché questa volta è diverso, per il più complesso e lungo ponte a campata unica al mondo, e ci sono tutte le condizioni per realizzare un’opera su cui si sono spese discussione infinite.
Per chiarezza, è quasi impossibile non cogliere il fascino del progetto per come viene presentato, in un contesto paesaggistico straordinario, che catturerebbe l’attenzione di tutto il mondo con un capolavoro di ingegneria che aiuterebbe gli spostamenti tra la Sicilia e il resto d’Italia. Ma se fino ad oggi tutti i tentativi sono falliti una ragione esiste. Ed è per questo che in larga parte degli italiani prevale lo scetticismo, perché da troppo tempo se ne parla e alle nuove promesse si accompagna la realtà di una situazione disastrosa del trasporto ferroviario al Sud.
La responsabilità della presidente del Consiglio sta nello spiegare perché questa è la volta buona e come sono stati superati tutti i problemi strutturali, sismici e finanziari che fino ad oggi hanno fermato i cantieri. Solo in questa maniera può riuscire ad evitare che diventi ancora una volta la solita discussione tra favorevoli e contrari, tra governo e opposizione, con accuse su conflitti di interesse e dubbi sulla credibilità dei protagonisti.
C’è un solo modo per superare questa situazione, ed è quello di fare una grande operazione trasparenza sul progetto, in cui Giorgia Meloni si spenda in prima persona per far vedere che nulla c’è da nascondere intorno alle due grandi questioni che inevitabilmente peseranno come un macigno sulle discussioni e le scelte dei prossimi anni.
Il Ponte di Messina si può davvero costruire?
La prima questione riguarda la fattibilità del progetto. Da mesi i media nazionali e locali sono inondati da notizie sulla imminente prima pietra, sull’avvio delle procedure di esproprio, con rendering sempre più belli e realistici disegnati sul meraviglioso sfondo di Scilla e Cariddi. Ma è inutile girarci intorno, il Governo non ha ancora spiegato cosa è cambiato dal 2011. Ossia da quando l’allora presidente del Consiglio Mario Monti – certamente non un estremista ambientalista – aveva fermato il progetto per la «non fattibilità tecnica ed economica».
Certo, quel governo stava affrontando una crisi finanziaria e economica terribile che limitava fortemente gli investimenti. Ma sempre di quel progetto parliamo, con la differenza che in questi 13 anni sono aumentati i costi dei materiali da costruzione e sono scomparsi gli investitori privati che dovevano contribuire al finanziamento dell’opera e alla sua gestione.
Ci sono tante questioni tecniche a cui occorre dare risposta, ad esempio rispetto alla realizzabilità di funi portanti di questa lunghezza, stabilità, resistenza. Non sono questioni estemporanee o fissazioni di qualche ingegnere pazzo, ma evidenze tecniche legate al fatto che nessuno ha mai costruito qualcosa di nemmeno lontanamente paragonabile per complessità.
Proviamo a farci capire con un esempio: nello scontro sulla TAV in Val Susa o nelle vertenze contro la Pedemontana lombarda, nessuno metteva in dubbio che l’opera si potesse realizzare. Si scontravano idee diverse sulle priorità infrastrutturali, differenze di vedute rispetto alla tutela ambientale e del paesaggio. Su questo progetto avere dubbi è comprensibile, perché mai prima l’ingegneria si è spinta a questi limiti tecnici e risposte chiare non sono state date.
Per superare questo evidente punto di crisi dell’operazione, occorre nominare delle figure davvero indipendenti che garantiscano che ad ogni dubbio tecnico posto sugli aspetti statici sia data puntuale risposta. E se si è sicuri del progetto che si sta portando avanti non sarà certamente un problema dare seguito alle richieste.
Perché i costruttori non si assumono i rischi del progetto?
La seconda questione è relativa alla condivisione del rischio del progetto con le imprese che realizzeranno l’opera. Perché tutti i rischi oggi sono a carico dello Stato, che dovrà non solo garantire per gli 11,63 miliardi di Euro previsti come spesa nella Legge di Bilancio 2024, ma anche per i futuri aumenti in corso d’opera.
Se pensiamo che le tratte realizzate dell’alta velocità ferroviaria e l’autostrada Brebemi sono costate tra le due e le tre volte la stima iniziale, che per il Terzo Valico Milano-Genova si viaggia tra le quattro e le cinque volte, almeno una riflessione occorre farla per senso di responsabilità. Anche perché al momento abbiamo il costo finale previsto per la realizzazione senza che vi sia neanche un progetto definitivo approvato.
D’altronde, se il consorzio guidato da Webuild è davvero convinto della bontà della soluzione proposta non dovrebbe avere problemi ad accettare delle penali a suo carico in caso di aumenti dei costi e ritardi.
Da quanto trapelato sulla stampa la discussione in corso sulle penali è solo a carico del pubblico per la possibilità che un nuovo Governo cambi idea. Giorgia Meloni su questo tema potrebbe stupire tutti e far vedere che questa volta è davvero diverso. Che se è vero che in giro si vedono i soliti, e nel frattempo invecchiati, Ciucci, Lunardi e compagnia bella che dal 2001 accompagnavano Berlusconi a raccontare il fantasmagorico progetto, questa volta si fa sul serio, con il meglio dell’ingegneria italiana e mondiale a fare da garanzia. E che non ha paura di prendersi in carico anche i rischi dell’operazione.
Gli interessi diversi di Salvini e Meloni
In fondo è proprio la leader di Fratelli d’Italia la prima ad avere interesse a cambiare il verso dell’operazione Ponte sullo Stretto rispetto a come è stata impostata in questi mesi. Perché se Matteo Salvini punta a giocare una partita di corto respiro, perfino spregiudicata, pur di sopravvivere alle elezioni europee e alla crisi della sua leadership nella Lega, molto diversa è invece la prospettiva per chi è presidente del Consiglio e vuole rimanerci a lungo.
Perché ai conflitti al Sud sul progetto di autonomia differenziata, con le conseguenze per la spesa sociale e gli investimenti, rischiano di aggiungersi altre polemiche per la cancellazione di investimenti proprio come conseguenza dell’approvazione del progetto del Ponte, come già avvenuto con il taglio alle risorse previste dal Fondo europeo di sviluppo e coesione per le Regioni Calabria e Sicilia. Visto il peso che avrà quest’opera nel definire la direzione che prenderà il Paese nei prossimi anni, sarà un banco di prova importante per vedere di che stoffa è fatta Giorgia Meloni.
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