Chiusi dentro container sovraffollati nel periodo di quarantena, senza la possibilità di assistenza medica o legale e senza le necessarie precauzioni per la salute, e soggetti a severe misure restrittive anche quando il lockdown era ormai decaduto per il resto della popolazione: è quello che è successo ai migranti sull'isola di Lesbo durante l'emergenza coronavirus.

La pandemia è servita al governo greco per normalizzare lo smantellamento dei diritti dei migranti e la loro detenzione illegale, portando all'istituzione di un regime “speciale” e discriminatorio per i richiedenti asilo, che si è rapidamente trasformato in un apartheid di fatto. Lo denunciano il Legal Center Lesvos e il Feminist Autonomous Center for Research in “A pandemic of abuses”, un report pubblicato di recente, in cui dimostrano come «la Grecia abbia utilizzato strategicamente il Covid-19 come giustificazione per accelerare e intensificare le politiche sociali repressive, compresa l’adozione di politiche migratorie più dure e ostili, che hanno avuto un impatto duraturo sulla vita dei migranti».

Criminalizzare

Una situazione iniziata il 1° marzo 2020, quando il premier Kyriakos Mitsotakis aveva dichiarato la sospensione per un mese del diritto d'asilo in Grecia e l'immediata deportazione dei nuovi arrivati sulle coste greche, in flagrante violazione dell'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e delle norme internazionali sull'accoglienza dei rifugiati.

Le persone sbarcate a Lesbo in quel periodo sono state accusate di immigrazione illegale ed è stato loro vietato l'ingresso al centro di accoglienza: famiglie, bambini, malati sono rimasti per giorni all'aperto, al porto di Mytilene, o segregati all'interno di una nave della marina greca. «Questa decisione – spiega Marion Bouchetel, avvocata del Legal Center Lesvos –  ha gettato le basi per la criminalizzazione sistematica e la detenzione arbitraria di tutti i migranti in siti non ufficiali e in condizioni igienico-sanitarie spaventose».

Con la motivazione dell’emergenza Covid sono stati chiusi più volte gli uffici che sull'isola si occupano delle pratiche per la domanda di asilo e, alla riapertura, il numero di persone autorizzate ad accedervi è stato limitato, con la conseguenza che oltre 1400 persone, respinte in prima istanza, non hanno fatto in tempo a presentare ricorso nei dieci giorni previsti.

In centinaia si sono quindi trovati fuori dalla procedura di asilo, senza status giuridico in Grecia e senza alcun tipo di assistenza, in un periodo in cui le riammissioni in Turchia erano state congelate per le restrizioni dovute alla pandemia.

All'inizio del 2020, come se non bastasse, è entrata in vigore una legge sulla protezione internazionale (4636/2109) che elimina le tutele giuridiche esistenti per le persone vulnerabili (come i sopravvissuti alla tortura o alla violenza sessuale, le persone affette da gravi patologie, le donne incinte e i minori non accompagnati), con una prevedibile impennata di rifiuti delle richieste di asilo. Una decisione ministeriale congiunta del governo greco dell'anno successivo (42799/2021) ha poi esteso l'elenco delle nazionalità ritenute sicure in Turchia anche ai cittadini afghani, somali, pakistani e del Bangladesh (oltre ai siriani), cioè, in sostanza, ai paesi da cui proveniva la maggior parte dei migranti arrivati in Grecia fino a quel momento.

Lontano dagli occhi

Alla difficoltà imposte dalla legge si sono aggiunti i rischi per la salute, dovuti a scarsi se non addirittura inesistenti servizi igienici (nel centro provvisorio di Kara Tepe nei primi tre mesi non c'erano nemmeno le docce) e all'impossibilità di proteggersi dal virus nei campi o nei tendoni sovraffollati (l'hotspot di Moria negli ultimi mesi era arrivato a contare quasi 25mila persone in una struttura pensata originariamente per 2700). Anche la vaccinazione dei migranti è iniziata cinque mesi dopo rispetto agli altri abitanti dell'isola e si è trascinata con estrema lentezza finché, nell'autunno 2021, l'Organizzazione nazionale per la sanità pubblica greca ha dichiarato di non poter vaccinare chi si trovava fuori dalla procedura d'asilo.

Oggi gli ospiti del Centro di Kara Tepe sono circa 2800 ma gli sbarchi continuano. Nessuno sembra più stupirsi dell'obbligo riservato ai nuovi arrivati di osservare una reclusione forzata di cinque giorni – non giustificata da motivi di ordine sanitario – in cui non vengono registrati né possono entrare in contatto con le ong. I respingimenti illegali della Guardia Costiera greca e di Frontex, più volte documentati, e la detenzione di fatto dei richiedenti asilo in condizioni di isolamento ed estremo disagio hanno preparato la costruzione dei nuovi Centri ad accesso chiuso e controllato, previsti sulle isole di Lesbo, Chios, Samos, Kos e Leros (questi ultimi tre già attivi) e costati all'Europa 260 milioni di euro. «La gestione securitaria del periodo Covid è servita a far accettare un sistema che prevede la prigione per i migranti», conclude Bouchetel.

Circondati da filo spinato e regolati da una rigida disciplina interna, questi nuovi centri sono lontani dal centro abitato, in modo da rendere invisibili gli occupanti. Quello di Vastria a Lesbo, in particolare, dista quaranta chilometri da Mytilene. È pronto, ma la sua inaugurazione continua a slittare, data la ferma opposizione della cittadinanza e il fatto che si trova nel cuore della più grande foresta dell'Egeo: appena un mese fa il Consiglio di Stato ha bloccato il progetto per la mancanza di un adeguato piano ambientale e l'elevato rischio di incendi.

Impassibile, il nuovo ministro dell'Immigrazione e dell'asilo Dimitris Kairides ha dichiarato che tutti i problemi saranno risolti e il centro sarà operativo nella primavera del 2024. Sarà la volta buona? La riposta potrebbe dipendere anche dalle elezioni regionali di ottobre, dove ha buone possibilità di essere riconfermato Konstantinos Moutzouris, governatore della Regione dell'Egeo Settentrionale, indipendente di destra e strenuo oppositore del Centro di Vastria.

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