È il primo confronto senza un Agnelli alla guida della società bianconera e dopo la definitiva chiusura di Calciopoli. Si confrontano due mondi che nell’ultimo quarto di secolo si sono detestati e ora devono vincere la sfida della normalizzazione
Il vertice della classifica in ballo e un passaggio d’epoca sullo sfondo. Juventus e Inter tornano a sfidarsi domenica sera allo Stadium di Torino per l’ennesima rappresentazione di quello che è stato etichettato come il Derby d’Italia. Arrivano all’appuntamento con la consapevolezza di contendersi la leadership del calcio italiano e di essere le principali candidate per la corsa allo scudetto. Ma sanno pure che questa partita si svolge sotto il segno di un’impossibilità di essere normali e di una rivalità che negli anni più recenti ha nettamente superato il livello di guardia. Tutto per via di una profonda acredine che ha avviato la sua fase acuta col mancato rigore per il fallo di Mark Iuliano su Ronaldo nella gara del maggio 1998, si è consolidata col sorpasso al fotofinish del 5 maggio 2002 e ha toccato il punto di non ritorno con la revoca e la riassegnazione dello scudetto 2005-06.
Da lì in poi la linea di frattura si è fatta insanabile, aggravata dalla sequenza di episodi successivi i cui ultimi passaggi si sono consumati nella scorsa stagione intorno alla figura di Romelu Lukaku: dapprima i cori razzisti di cui è stato bersaglio durante la semifinale di Coppa Italia giocata a Torino, poi le indiscrezioni di calciomercato che a inizio estate lo davano in procinto di accordarsi con la Juventus. Un passaggio, quest’ultimo, che ha prodotto un effetto straordinario: generare un’inattesa concordia di sentimenti fra le tifoserie bianconera e nerazzurra, accomunate dal disprezzo per l’attaccante belga.
Le cose che cambiano
Dunque le premesse sarebbero quelle di una nuova puntata da serial “C’eravamo tanto odiati”. Eppure sarebbe errato inquadrare la sfida di domenica sera come se fosse soltanto la replica di uno schema abbondantemente messo in atto nell’ultimo quarto di secolo. La realtà dei fatti storici che incidono giorno per giorno dice altro. E la diversità sta nel fatto che durante i mesi più recenti la cronaca ha consegnato alla Storia (del calcio nazionale, ma anche del Paese nel suo complesso) alcuni passaggi di mutamento che nel medio periodo saranno destinati a produrre conseguenze nel profondo. Nulla che sia destinato a cambiare in modo definitivo i rapporti fra il mondo interista e il mondo juventino, ma magari abbastanza per avviare un principio di Strategia dell’Indifferenza che cominci a ammortizzare le tossicità di un’inimicizia andata ben oltre i limiti.
Del resto, i cambiamenti sono evidenti. Ci si appresta a vivere il primo Juventus-Inter di campionato senza un Agnelli a capo della società bianconera nel ruolo di presidente o di proprietario. L’ingloriosa uscita di Andrea dalla scena juventina ha avviato una faticosa fase di ricostruzione, cui sul campo la squadra sta rispondendo con risultati che l’hanno riportata a ridosso della testa del campionato. Ma è giunta anche la definitiva chiusura della vicenda di Calciopoli, ufficializzata col ritiro dell’ultimo ricorso in Consiglio di Stato avverso alla sentenza del Tar. Un netto segno di discontinuità lanciato dalla dirigenza del nuovo corso bianconero rispetto a quella uscita di scena con le dimissioni di Andrea Agnelli. Ma anche un oggettivo segnale di pacificazione verso l’Inter, che nella vicenda di Calciopoli è stata inquadrata come la nemica numero uno sia per essere stata salvata dalla prescrizione come sarebbe emerso negli anni successivi, sia per essersi vista attribuire lo scudetto 2005-06 revocato alla Juventus. Dunque un pezzo del conflitto è stato rimosso. Basterà?
Ciò che divide, ciò che unisce
Questi anni di aspra inimicizia hanno strutturato una visione reciproca d’irriducibile diversità. Due mondi opposti e fieri di esserlo, con la convinzione radicata su entrambi i fronti che il Bene stia da questa parte e il Male dalla parte opposta. Un’inconciliabile differenza antropologica. Che sul campo si esprime in questa stagione anche attraverso il distinto modo di giocare. L’Inter di Simone Inzaghi è una squadra che cerca sempre di imporre il proprio gioco. Capita che si distragga e butti via partite (ma anche uno scudetto) per eccesso di sicurezza in se stessa, ma non rinuncia mai a questo modo di concepire il calcio. Viceversa, la Juventus di Massimiliano Allegri è un manifesto del cinismo calcistico. Concede nulla all’estetica, si dedica al “risultatismo”, suscita malumori anche presso ampia parte della tifoseria juventina che vorrebbe anche vedere un gioco esteticamente più attraente. I risultati fin qui collezionati in campionato, però, rafforzano la posizione di Allegri che già partiva blindato da un contratto pesante (7 milioni di euro a stagione fino al 30 giugno 2025) e da un ridimensionamento dei costi che ha costretto la nuova dirigenza juventina a mettere in linea anche le ambizioni. E in questo contesto che spinge la Juventus a essere più di lotta che di governo, ecco che l’Allegrismo calcistico sta in piena sintonia. C’è da fare prosa anziché poesia, e allora chi di poesia non vuol proprio sentir parlare cattura perfettamente lo Zeitgeist juventino della ricostruzione.
Dunque Allegri contro Inzaghi è una contrapposizione con un fascino tutto suo, buona per rappresentare plasticamente sul campo l’idea del confronto fra mondi opposti. Eppure esistono altri motivi che rendono Juventus e Inter molto meno distanti rispetto a quanto la comunità bianconera e quella nerazzurra sarebbero disposte a riconoscere. Quando si entra nel gioco grande dell’economia politica del calcio, le due società formano assieme al Milan una triade indissolubile. Le identità duellano e si scontrano, ma poi gli affari sono affari. E se si parla di affari la rivalità fra i tre club quasi svanisce. Sono stati soci fondatori del G14, la lobby che alla fine degli anni Novanta progettava già la Superlega e usando questa arma di pressione costrinse l’Uefa a ridisegnare la formula della Champions League dandole l’attuale veste che è un elogio della disuguaglianza estrema.
E ancora, i tre club erano insieme quando il tentativo più recente (e sciagurato) di Superlega è stato effettuato nell’aprile del 2021. In quell’occasione il denaro del ricco premio d’ingresso garantito (300 milioni di euro) garantito da JP Morgan fu un collante potente abbastanza da indurre a mettere da parte oltre vent’anni di veleni. E il naufragio del progetto non ha cancellato la comunione d’intenti. Su questo fronte la rinuncia della Juventus è stata più recente che quella (immediata) dell’Inter, presentandosi come l’ennesimo effetto della de-agnellizzazione. Ma tutti sanno che quello della Superlega è un dossier messo fra parentesi per entrambi i club come per il Milan. A lungo andare se ne riparlerà. E attorno a quel tavolo non esisteranno differenze antropologiche né fiere inimicizie.
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