Sono presenti nella nostra coscienza collettiva da tempi biblici, oggi hanno un indubbio problema di marketing. I legumi sono una buona alternativa alla carne, ma restando nel sistema della Gdo l’impatto ambientale rimane alto.
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito». Esaù chiede al fratello un po’ della sua minestra rossa e Giacobbe gli risponde «Vendimi subito la tua primogenitura». Ed Esaù: «Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?». Giura che gliela venderà e Giacobbe gli dà il pane e la minestra di lenticchie. «Questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura».
È una di quelle scene della Bibbia che conosciamo tutti perfettamente e a ognuno è chiaro che “vendersi come un piatto di lenticchie” vuol dire svendersi per poco.
In realtà a rileggerla si potrebbe pensare piuttosto che Esaù avesse disprezzato il potere e preferito un piatto che simboleggia prosperità e fortuna. Nel presentare la sua zuppa di lenticchie nella Scienza in Cucina, il maestro della cucina italiana Pellegrino Artusi ci scherza così: «Se Esaù vendé la primogenitura per un piatto di lenticchie, bisogna dire che il loro uso, come alimento, è antichissimo, e che egli o n’era ghiotto all’eccesso o soffriva di bulimia».
Le lenticchie sono quindi anche un piatto “ghiotto”, simbolo di abbondanza perché tonde e piatte come monete, facili da coltivare e dunque economiche ma anche molto nutrienti e soprattutto proteiche, come la carne. Tanto fortunate e fertili, le lenticchie, che tutti noi le mangeremo il primo dell’anno perché ci portino buona sorte, soprattutto economica. Come quasi tutti i legumi, sono semi che crescono e si moltiplicano: l’augurio è che le monete si moltiplichino allo stesso modo nelle nostre tasche. È un’usanza che rimonta al mondo Romano, e forse anche Esaù la vedeva così. Certo è che per lui valeva una primogenitura mentre noi delle lenticchie quasi sempre ce ne dimentichiamo per tutto il resto dell’anno.
Problema d’immagine
Non è una rappresentazione fortunatissima quella delle lenticchie. E in una società che si fonda sulla rappresentazione in generale e da qualche anno proprio sulla rappresentazione del cibo, la narrazione che si fa di un alimento è quasi tutta la sua fortuna. Viviamo e desideriamo attraverso i media, che siano la pubblicità, la televisione, il cinema, i social. Lo osservava Debord sessant’anni fa, ma in un’accezione più ampia rispetto a quella della Società dello Spettacolo forse è così da. L’umano vive raccontandosi storie e dà significato alle cose che vive, che vede, che mangia attraverso il pantheon di storie in cui è immerso.
Nelle principali religioni semitiche la carne di maiale è vietata: sicuramente, perché si deteriora facilmente e in climi caldi può essere pericolosa, ma principalmente perché viene narrata come impura. In culture in cui la caccia era un corpo a corpo invece la carne conteneva l’anima, la forza e lo spirito dell’animale che si sarebbe mangiato: c’era qualcosa di sacro e il suo consumo poteva avvenire raramente e solo in un contesto di determinati riti. Nell’ebraismo la cena di Pesach (la Pasqua ebraica che celebra la liberazione dall’Egitto) propone piatti amari per ricordare l’amarezza della schiavitù e piatti dolci per non dimenticare i momenti di dolcezza anche nei momenti difficili, mentre la matzah, il pane non lievitato, richiama l’urgenza della fuga. Nel Seicento in Francia si cominciò a seminare la voce che il lievito di birra facesse male e che anzi quella morbidezza e dolcezza che conferiva al pane fossero spie dell’intervento del Diavolo in persona. In realtà era tutta una diatriba fra panettieri e direttori dei cabaret, ma i panettieri fecero una certa fatica a ripulire il loro pane con lievito di birra dalla diceria che il loro ottimo pane fosse diabolico.
Di esempi è pieno, il cibo è sempre significante, sempre intessuto di cultura, immaginari, superstizioni. Oggi le lenticchie ci fanno pensare solo allo sfortunato Esaù e caso mai alla cena di capodanno, sono povere di rappresentazioni e il ruolo di alimento proteico portante (e a basso costo, visto che è prodotto intensivamente) ce l’ha senza dubbio la carne.
Traiettoria calante
Fino al dopo guerra in Europa esisteva una forte auto-produzione agricola di legumi: erano facili, economici, sempre inseriti nelle rotazioni della coltivazione e anche poco sensibili a cambiamenti atmosferici (e oggi climatici). Anzi arricchiscono il terreno e richiedono meno acqua e meno pesticidi di altri prodotti. Poi c’è stato il boom economico e i legumi sono passati in secondo piano. Erano diventati sinonimo di povertà e sono state in larga parte abbandonati, almeno nel Nord globale. Da allora siamo immersi in quella che lo scrittore canadese John Vaillant chiama Età del fuoco o Petrocene.
È un tempo fondato sull’immagine del confort e del controllo di fuoco e terra da parte dell’uomo. Motori a scoppio e plastica, bistecche, abbondanza e sperpero. La carne fa parte di questa stessa cultura, di questa immagine di benessere e ricchezza. È stata raccontata così dal cinema e dalla pubblicità statunitensi che poi sono il cinema e la pubblicità per eccellenza, quelli che hanno influenzato l’immaginario di mezzo mondo con i loro hamburger.
Ora siamo in un momento di passaggio, in cui questa rappresentazione di auto, plastica e bistecche esiste ma inizia a essere lentamente messa in crisi (e proprio per questo strenuamente difesa, che tutto sommato è una buona notizia perché si difende ciò che è in pericolo). In questa fase di transizione ci sono due legumi che hanno vinto la propria battaglia. La prima è la soia, almeno in formato salsa (ma anche di tofu), per cui può ringraziare il culto del sushi.
I ceci invece hanno vinto la loro battaglia grazie all’hummus. Ammettiamo che l’humus è particolarmente buono, quasi addictive, e questo facilita le cose. E non arriva dal nulla: è un piatto tipico di tutto il Medioriente, dalla Siria a Israele, la Giordania, il Maghreb, spalmabile quindi perfetto per il culto dell’aperitivo, anche molto instagrammabile se servito su piattini di ceramica mediorientali decorati con motivi colorati. Assieme all’avocado è diventato simbolo di uno status sociale, rimanda a un mondo benestante, sano e progressista, in ultima analisi hipster.
Presi da soli però i ceci come i fagioli rimandano a tristi lattine di alluminio e conservanti e l’humus da solo non riesce a soppiantare il consumo di carne.
Salvatori inaspettati
Ecco, se ci soffermiamo sui dati relativi al consumo di carne, trovare una nuova narrazione per le lenticchie e in generale per i legumi ci sembrerà necessario e urgente.
Secondo la FAO gli allevamenti intensivi sono responsabili del 14,5 per cento delle emissioni globali di gas serra (metano, anidride carbonica, protossido di azoto), con il metano che ha un potenziale di riscaldamento 25 volte superiore a quello della CO2. Oltre alle emissioni, l’industria zootecnica provoca inquinamento dell’aria e dell’acqua con residui di letame e fertilizzanti, deforestazione e perdita di biodiversità per far spazio a monocolture di mangimi e capannoni per gli animali. Ecco, circa il 70 per cento delle terre agricole globali è destinato a colture per mangimi animali (soprattutto mais, soia e grano). Proprio l’agribusiness è fra le minacce principali per la foresta Amazzonica. Al mondo in questo momento ci sono circa 25-30 miliardi di polli, 1,5 miliardi di maiali e 1,5 miliardi di bovini (concentrati in particolare in Brasile, Stati Uniti e Cina). Noi siamo tanti ma molti, molti meno dei polli. L’impatto ambientale e sociale di tutto questo, inutile dirlo, è immenso. Quando in Pianura padana vediamo quella nuvola di smog, come la chiamerebbe Calvino, che copre tutto, la responsabilità è più degli allevamenti intensivi che dei riscaldamenti o delle automobili.
Insomma, se mangiassimo lenticchie tutto l’anno invece della carne avremmo risolto tutto, giusto? Ecco, no. Purtroppo è più complicato di così.
Gli impieghi
Chiara Danielli lavora in ristorazione da quasi quindici anni, ha girato il mondo e soprattutto il Sud America e da qualche anno si è fermata al Reis: un ristorante della Val Varaita, nel Piemonte Occidentale, fondato dallo chef stellato Juri Chiotti. Al Reis la carne si cucina, solo che gli animali sono loro e sono pochi, passano l’estate in alpeggio, di ogni capra si conosce il nome e si mangia tutto. Non c’è scarto, o ce n’è il meno possibile. Tutto quello che usano è coltivato lì in valle: qualcosa da loro, qualcosa da altri esercizi vicini con cui condividono una stessa idea di come bisognerebbe mangiare e dunque produrre il cibo.
«I legumi sono una possibile risposta a una serie di problemi del nostro sistema alimentare, non c’è dubbio. Oggi però stanno all’interno di un paradigma di produzione industriale che è lo stesso della carne, e a un meccanismo di import-export globale che fa riferimento a paesi terzi come giardini nell’occidente. E infatti noi importiamo buona parte dei legumi che mangiamo da oriente, Africa subsahariana e un po’ da Cile e Argentina. Questo non li rende particolarmente sostenibili» spiega Chiara Danielli. In Italia esistono presidi Slow Food di singoli legumi protetti ed è vero che chi ha una certa attenzione per il cibo negli ultimi dieci anni ha iniziato a consumare più leguminose. A volte per ragioni etiche, altre per ragioni economiche, dato che il potere di acquisto delle famiglie si è notevolmente ridotto. «Però le grandi marche che le persone sono abituate a comprare al supermercato non fanno riferimento a piccole produzioni di legumi locali ma a grandi e lontane monocolture».
Insomma, un conto è mangiare legumi secchi e non lavorati, provenienti dall’Italia o al massimo dall’Europa. Certo, bisogna ricordarsi la sera prima di metterli a bagno, ma per il resto non richiedono particolare tempo e particolare cura. Tutt’altra cosa è la GDO. Grande distribuzione organizzata vuol dire quasi sempre agricoltura intensiva, che indebolisce il terreno, logora l’ecosistema, spesso consuma molta acqua e non raramente implica condizioni di lavoro dei braccianti di cui abbiamo avuto un piccolo assaggio con la morte del trentunenne indiano Satnam Singh nel giugno 2024.
Di sostenibile non c’è quasi nulla. Ma non solo. I prodotti che compriamo al supermercato sono soprattutto prodotti molto lavorati, che siano in scatola, in barattolo, a mollo in acqua e conservanti o surgelati, con tutta l’energia che la catena del freddo richiede. E perché un prodotto arrivi da lontano, sia molto lavorato e costi relativamente poco al consumatore, al contadino o al bracciante devono essere arrivati davvero pochi spiccioli. Vale per i barattoli di ceci pronti, per le insalate di lenticchie, per il pollo incellophanato, per tutto quello che troviamo al supermercato.
Ostacolo GDO
Per Chiara Danielli, «finché si resta nel mondo della GDO stiamo girando in tondo e non si risolve il problema. Gli impatti di una cultura agricola, anche intensiva, sono sempre inferiori a quella dell’allevamento intensivo. Però un piccolo allevamento di bestiame ha un impatto minore rispetto alla coltura estensiva. Se entrambi, carne e legumi, stessero dentro piccoli sistemi chiusi e circolari sarebbero meno dannosi». Quindi? Lenticchie della grande distribuzione meglio della carne della grande distribuzione, non necessariamente della carne di un piccolo allevamento. Se dovessimo consumare lenticchie tutto l’anno, e non solo la sera di capodanno, sarebbe meglio fossero lenticchie secche e che non vengano dall’altra parte del mondo. Questo però vale per tutto quello che mangiamo.
Intanto riabilitare i legumi su larga scala è un processo difficile e lungo. Immersi come siamo in quella cultura del Petrocene, bistecche e motore a scoppio, oggi la maggior parte delle persone sono convinte che esistano solo le proteine animali.
Poi serviranno anche le storie, per reintegrare i legumi (tutti, non solo le lenticchie, che le mode portano monocolture!) e risignificarli. E ripensare a Giacobbe, che si cuoce le sue lenticchie a chilometro zero, e Esaù che in cambio di quelle lenticchie gli cede la primogenitura di buon grado, perché il potere gli interessa meno di un piatto di cui, come diceva l’Artusi, va così ghiotto.
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