Un gruppo di produttori di Conegliano-Valdobbiadene è sul piede di guerra. Il sistema dello spumante più famoso d’Italia non valorizza la loro specificità territoriale. Ma la vera forza di questi vini è la loro riconoscibilità di massa, qui e all’estero
Parte da Vidor e arriva a Serravalle, la zona settentrionale di Vittorio Veneto. È un percorso di 51 km percorribile a piedi in quattro tappe o meno che attraversa quasi per intero, da ovest a est, una delle aree vitate più suggestive d’Italia, quella che caratterizza i panorami della denominazione del Conegliano Valdobbiadene Prosecco. Si chiama Il Cammino delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, anche nelle comunicazioni istituzionali quasi sempre abbreviato nel più semplice Il Cammino delle Colline del Prosecco.
Prosecco hills link è invece un servizio autobus nato da una sinergia fra Trenitalia e Mobilità di Marca, l’azienda che si occupa dei trasporti pubblici del trevigiano. Una novità il cui nome ricorda quello dei Frecciarossa link presentata anche dal presidente regionale, Luca Zaia, che da luglio a settembre di quest’anno ha permesso dalla stazione dei treni di Conegliano di raggiungere in autobus non solo Valdobbiadene ma anche tutte le principali località della zona del Conegliano Valdobbiadene Prosecco, area che dal 2019 è iscritta proprio con il nome de Le Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene alla lista dei siti Patrimonio dell’Umanità Unesco.
Due iniziative che agli occhi meno esperti non possono che apparire come virtuose, capaci di valorizzare dal punto di vista turistico una delle aree vitate più belle della Penisola. Santo Stefano, Guia, Miane e tanti altri piccoli centri segnati da pendii anche molto scoscesi, poca terra prima di molta roccia: sono secoli che qui l’essere umano anche grazie alla viticoltura conserva le forme di queste colline in una simbiosi che continua a preservarne un’estetica pressoché unica, anche nel mondo del vino. Due iniziative, soprattutto la prima, che hanno però creato una spaccatura enorme tra un gruppo di produttori e il loro consorzio locale.
Tre anime
Anche se agli occhi del mercato può a volte apparire come unico l’universo Prosecco è formato da tre diverse anime. Da una parte c’è il Prosecco Doc, espressione di una delle denominazioni di origine più grandi d’Italia i cui confini comprendono in Veneto l’intero territorio delle province di Belluno, Padova, Treviso, Venezia e Vicenza e in Friuli-Venezia Giulia quelle di Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine. Un colosso che nel 2022 è valso oltre 638 milioni di bottiglie prodotte (+1,8 per cento sul 2021) per un fatturato complessivo di oltre tre miliardi di euro (+11,5 per cento).
Dall’altra le denominazioni considerate come storiche, di sola collina o quasi, dove il più famoso vino spumante italiano è nato e si è sviluppato. Sono l’Asolo Prosecco Docg e soprattutto il Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg, che nel 2022 ha prodotto quasi 104 milioni di bottiglie a cui è corrisposto un valore di 634 milioni di euro (+2 per cento sul 2021). Tre diverse denominazioni che non solo condividono almeno in parte il nome, Prosecco, ma anche le tipologie di vini che è possibile produrre con le uve coltivate all’interno dei loro confini, per la stragrande maggioranza glera: soprattutto vini spumanti, le tipologie più diffuse sono Dry, quasi dolce, Extra Dry, più morbido, e Brut, più secco.
Ognuna di queste denominazioni può contare sul proprio consorzio di tutela per una lunga serie di funzioni, le più visibili sono quelle legate alle attività promozionali, in Italia e all’estero.
Negli ultimi anni, in particolare, i produttori appartenenti alla zona storica di Conegliano e Valdobbiadene hanno maturato la consapevolezza di doversi distinguere in maniera netta, chiara, dal più generico Prosecco Doc.
Una questione agricola e quindi anche qualitativa: la viticoltura di collina è di gran lunga più dispendiosa di quella di pianura, richiede maggiori attenzioni a partire dalle potature invernali fino alla vendemmia, quasi sempre manuale; per quanto esistano alcune eccezioni, i vini che ne derivano sono più buoni, capaci di esprimere maggiori sfaccettature aromatiche e finezza complessiva.
Una serie di peculiarità che si riflettono sul prezzo: i vini provenienti dalle aree delle due Docg sono mediamente più costosi di quelli provenienti dalla grande zona della Doc.
I ribelli
Il Cammino delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene è stato sviluppato dall’Associazione per il Patrimonio delle stesse colline, fondata nel 2008 con lo scopo, raggiunto, di iscrivere questa zona così peculiare nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità Unesco. Tra i soci fondatori oltre alla regione Veneto anche il locale consorzio di tutela.
È per questo che molti, in zona, sono rimasti prima colpiti e poi indignati dalla scelta, sia sul sito internet che sulla segnaletica che è stata installata lungo il percorso, di abbreviarlo nel più immediato Il Cammino delle Colline del Prosecco. Suscitando la reazione di un gruppo di sei produttori: Loris Dall’Acqua (Col Vetoraz) Stefano Pola (Andreola), Maurizio Favrel (Malibran) Gianfranco Bortolin (Le Bertole) e Francesco Drusian (Drusian).
«Era troppo grossa per passare inosservata, la cosa dell’autobus è venuta dopo», racconta uno dei sei produttori che proprio a partire da quest’estate hanno cercato di sensibilizzare il tessuto produttivo della zona su questo argomento. «Fino al 2009 era naturale che qui tutto o quasi ruotasse intorno al solo nome del Prosecco. È allora che c’è stato il riordino delle denominazioni di origine: noi siamo diventati Docg e il Prosecco generico (per difendersi dalla possibilità potesse essere prodotto con lo stesso nome in tutto il mondo, ndr) da Igt è diventato Doc, includendo al suo interno per trovare un appiglio geografico la piccola frazione di Prosecco, vicino Trieste.
Se è vero che il Prosecco è nato qui e non in Friuli è anche vero che non possiamo ignorare quanto oggi sia importante comunicare il luogo di produzione di un prodotto, vino in particolare. Penso al Brunello di Montalcino, al Barolo, rossi che si identificano completamente con il posto, unico e non replicabile, in cui vengono prodotti. Noi dobbiamo fare passare lo stesso concetto: qui si produce Conegliano Valdobbiadene, nomi che possono essere usati anche da soli, separati: vini che non è possibile confondere con il generico termine Prosecco che certo non rimanda immediatamente a un luogo».
Il gruppo di imprenditori vitivinicoli e di produttori operanti all’interno della denominazione che condivide questa posizione ha superato le 230 adesioni.
Da uno dei loro comunicati stampa: «Sotto accusa non è il bellissimo Cammino promosso dall’associazione che ha sede in Villa dei Cedri a Valdobbiadene, bensì il fatto di trovarsi nuovamente di fronte a una comunicazione appiattita, generalista e fuorviante con il nome scelto per la cartellonistica. Il messaggio che passa attraverso le corriere e i cartelli del Cammino è da ritenersi illegittimo perché, giocando sull’equivoco, fa percepire al turista in visita di trovarsi nella denominazione Prosecco Doc». E ancora: si tratta di «nome totalmente illegale che, confondendo il consumatore, danneggia il lavoro di tante aziende che hanno investito le risorse di intere generazioni per distinguere il loro vino sul mercato nazionale e internazionale. Appaiono allora poco rassicuranti per i viticoltori e i produttori storici della denominazione le parole sin qui udite dal cda del consorzio di tutela, o i suoi silenzi, consorzio che pare non essere impegnato e concentrato su quello che dovrebbe essere il suo impegno primario, come da statuto».
Dall’altra parte
La presidente del consorzio Elvira Bortolomiol cerca tuttavia di smorzare i toni: «In un periodo di tempo non così esteso siamo cresciuti molto, non solo come numeri. Da Doc a Docg, fino all’importante riconoscimento da parte dell’Unesco. È naturale che in un contesto come il nostro, fatto di 210 aziende e 3.000 viticoltori, ognuno di questi cambiamenti vada assimilato. Sono cose che hanno bisogno di tempo, che vanno cavalcate nell’unità di intenti. Il nostro è un territorio in costante evoluzione, per questo come consorzio ben volentieri accogliamo questo genere di riflessioni, spunti che vogliamo trattare come pretesto di crescita di un’intera denominazione».
Bortolomiol da luglio è anche alla guida del Sistema Prosecco, società nata nel 2016 dalla volontà dei tre consorzi di unire le forze per lottare contro la contraffazione del prodotto. Ed è uno dei bersagli polemici dei tanti produttori che convengono sulla necessità di comunicare meglio il territorio chiedono anche che «venga esercitata una maggiore opera di vigilanza e controllo di tutte le denominazioni usate anche da soggetti terzi in eventi, manifestazioni, iniziative promozionali o di comunicazione che interessano il Conegliano Valdobbiadene».
Non è un’affermazione casuale, è bastata una veloce ricerca per scoprire quanto all’interno del territorio della Docg si organizzino manifestazioni quali la Prosecco Run, la Prosecco Marathon, la Prosecco Cycling e altre ancora.
Non solo, nonostante i tanti sforzi sono state tantissime le testate giornalistiche che nel 2020, in occasione del Giro d’Italia, hanno ribattezzato la tappa a cronometro “Conegliano–Valdobbiadene, Prosecco Superiore Wine Stage” nella più immediata “crono del Prosecco”. Basta poi notare che il sito internet istituzionale del Consorzio Tutela del Vino Conegliano Valdobbiadene Prosecco è raggiungibile al solo indirizzo prosecco.it per capire quanto questa sia situazione paradossale.
«Se una volta ci limitavamo a cercare di sensibilizzare le persone che conoscevamo nel non usare il solo termine Prosecco», continua lo stesso produttore», oggi è necessario fare di più, esercitare una pressione a tutto tondo, politica e legale». Qualcosa di simile a quello che in questi anni ha cercato di fare il Consorzio Vino Chianti Classico per differenziarsi da quello che tutela i vini del generico Chianti, denominazione meno prestigiosa e ben più grande rispetto a quella considerata come storica, che si estende solo tra le provincie di Firenze e di Siena e che al suo interno comprende i territori di otto comuni.
Il ruolo dei consorzi
I consorzi di tutela sono delle associazioni volontarie senza scopo di lucro, regolamentate dall’articolo 2602 del Codice Civile. A questi il ministero competente attribuisce funzioni di promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura generale delle indicazioni contenute all’interno del proprio disciplinare di riferimento. Racconta Angelo Peretti, giornalista e autore di strategie consortili: «Ogni consorzio è espressione volontaria dei produttori di un territorio: viticoltori, vinificatori e imbottigliatori. Va da sé che il loro scopo primario è quello di curare gli interessi della denominazione, ma le cose sono più articolate di così: ogni consorzio ha la responsabilità di modificare o adeguare il proprio disciplinare, oltre a tutelare i propri associati. Tutela, non vigilanza: all’interno di ogni disciplinare è obbligatorio indicare, è decisione che prende l’assemblea dei soci, una società che sia terza e che svolga attività di vigilanza, che sia insomma esterna». Normalmente un consorzio svolge queste funzioni solo nei confronti dei propri associati, se però la sua rappresentatività è di almeno il 40 per cento dei viticoltori e di almeno il 66 per cento della produzione della denominazione può ottenere un’ulteriore autorizzazione ministeriale a esercitare le sue funzioni su tutto il tessuto produttivo, anche nei confronti di chi non è associato al consorzio. Si tratta della cosiddetta autorizzazione erga omnes. «Non solo – aggiunge Angelo Peretti - un compito importantissimo dei consorzi è relativo a eventuali manovre di regolazione dell’offerta. Le regioni, sentiti i consorzi e le associazioni di categoria, hanno il potere di fissare alcuni paletti, penso per esempio a una modifica delle rese per ettaro in annate particolari come questa 2023».
In un contesto come quello dei consorzi una delle parole d’ordine è compromesso: nella grande maggioranza dei casi coesistono infatti al loro interno realtà con obiettivi molto lontani tra loro, ci sono magari la grande cantina sociale che punta molto sulla quantità (e quindi sul prezzo) e il piccolo produttore indipendente che guarda invece unicamente alla qualità. Tensioni che danno senso all’esistenza stessa del sistema consortile, da decenni (il primo è stato proprio quello del Chianti Classico, fondato nel 1924) particolarmente efficace nello svolgimento delle sue funzioni. Esistono però alcune storture: non è raro che i consorzi eccedano in zelo. Basti pensare alla tutela sfociata nel protezionismo di un nome storicamente associato a una varietà come il vermentino. È del 2019 il regolamento della Commissione Europea in cui, anche su pressioni politiche italiane, vengono definite quali varietà possono essere menzionate in etichetta e in quali paesi. Nel caso del Vermentino, a tutela delle Doc Vermentino di Sardegna e Vermentino di Gallura e considerato il suo radicamento e la sua tradizione in regioni come la Toscana e la Liguria, è stato deciso che all’interno dei confini europei questo può essere menzionato nelle sole etichette di vini prodotti in Italia e in Croazia. Una decisione che ha di colpo cancellato tutta la tradizione francese in materia, soprattutto corsa, legata a questo grande vino/vitigno bianco del Mediterraneo. Nel sud della Francia hanno così iniziato a chiamarlo con il poco conosciuto sinonimo Rolle, consapevoli non sia esattamente la stessa cosa.
Il paradosso del Prosecco
Nel caso del più popolare spumante italiano sono almeno due le forze in campo, apparentemente inconciliabili. Da una parte la coscienza del luogo, attore protagonista in grado di definire le caratteristiche uniche di un vino: nelle zone della Docg sono sempre di più i produttori che in etichetta scrivono solo Valdobbiadene o, più raro, solo Conegliano. Un minimalismo che va esattamente in questa direzione. Dall’altra la consapevolezza che è la massa critica raggiunta dai numeri del Prosecco Doc a permettere ai vini “di collina” un posizionamento sempre migliore. Denominazioni che inevitabilmente si trovano a dover condividere parte di un percorso, almeno nella percezione di parte del loro pubblico. Quello stesso percorso che in molti vorrebbero il più separato possibile.
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