- Mercoledì 10 marzo, dopo più di un anno, Roger Federer tornerà a giocare a tennis. La sua sfida, rientrare in pista dopo cotanto stop, non è solo questione di desiderio e di sentimento, quanto un duello contro il più rigoroso e meticoloso degli avversari: il tempo.
- Fino al secolo scorso, l’atleta professionista – salvo sparute attività con caratteristiche particolari – poteva ritenere chiusa la sua finestra di possibilità intorno ai trent’anni.
- «Thirty is the new twenty», i trenta sono i nuovi venti, eppure, ciò che si osserva è che sempre meno teenager riescono a essere competitivi ad alto livello.
Mercoledì 10 marzo, dopo più di un anno, Roger Federer tornerà a giocare a tennis. Ed è bastato un annuncio di poche parole («Inizia il conto alla rovescia per Doha») per far scattare il sismografo del tifo mondiale: tutti sono in ansia per il rientro, probabilmente l’ultimo, di uno dei fenomeni sportivi più amati di ogni epoca e disciplina. La sua sfida, rientrare in pista dopo cotanto stop, non è solo questione di desiderio e di sentimento, quanto un duello contro il più rigoroso e meticoloso degli avversari: il tempo.
Federer sta per entrare negli «anta», l’età in cui molti uomini dell’epoca di suo padre giravano con bretelle e girovita lievitato dalla vita sedentaria. Erano tempi in cui i testi di letteratura sportiva ricordavano che la sarcopenia, la perdita di massa muscolare, iniziava a rosicchiare fibra rossa già dai vent’anni di vita in poi, con un ritmo del 5 per cento ogni dieci anni e poi, dai 45 anni in su, raddoppiando il passo. E che, insomma, non esisteva rimedio all’invecchiamento organico, sicché il mezzo del cammin di nostra vita poteva restare suppergiù quello fissato da Dante nel 1300. Si è giovani fin verso i trent’anni, dopodiché inizia il secondo tempo dell’esistenza. Anche se si fa sport. Anzi, soprattutto: l’usura delle giunture, l’esaurimento delle motivazioni e delle risorse psicofisiche, il recupero sempre più lento dagli infortuni, la volontà di regalarsi una vita “normale” hanno rappresentato, per migliaia di atleti, un – oppure il – motivo per dire basta.
I progressi della scienza
Ma se c’è una branca della scienza che ha saputo stiracchiare i limiti umani sempre un po’ più in là, pressappoco dalla nascita di Federer in poi, quella è la sua applicazione sportiva. Fino al secolo scorso, l’atleta professionista – salvo sparute attività con caratteristiche particolari – poteva ritenere chiusa la sua finestra di possibilità intorno ai trent’anni. Era una regola di massima: eppure, in pochi riuscivano a violarla.
Negli anni Ottanta, quando Paolo Maldini – raro esempio di precocità ed eccellenza – esordiva nel Milan di Liedholm a sedici anni, si vivevano tempi in cui i campioni di ventotto anni erano definiti maturi, se non senatori. Se non vecchi. Sui quotidiani che davano conto delle partite della domenica, ci si riferiva ad attaccanti appena trentenni come a giocatori «ormai sul viale del tramonto», e nessuno gridava allo scandalo.
Dino Zoff, nel 1982, aveva offerto il suo contributo al trionfo nel mondiale di Spagna e aveva quarant’anni, è vero: ma era un portiere. E lo si riteneva una sorta di esemplare unico, come poteva essere lo “zio” Jimmy Connors nel tennis quando osava, a trentanove anni suonati, sfidare il diciannovenne Michael Chang a Parigi, vincergli dopo quattro ore il primo punto del quinto set e poi ritirarsi, per esaurimento dell’ultima stilla di energia. I rivali Becker, Edberg, Lendl si sono tutti consumati intorno alla trentina, e chi ha tirato innanzi un po’ di più si è scordato i trionfi dei giorni felici.
Il povero eroe di Madrid Paolo Rossi, invece, di anni ne aveva venticinque e, anche per lui, la mannaia dei trenta significò il ritiro dall’attività professionistica. La selezione nazionale italiana, simbolo della maturità agonistica, era solita schierare giocatori intorno all’età di Rossi, fino a non troppo tempo fa. Nel 2015, la media dell’età dei titolari messi in campo nel corso dell’anno era lievitata a ventinove e l’età media del “parco giocatori” nel campionato di serie A supera, attualmente, i venticinque anni.
I ragazzini sono pochi, mentre fioriscono vette di eccellenza come Zlatan Ibrahimovic, coetaneo di Federer, tornato in Italia per dare la paga a ragazzi che frequentavano l’asilo, quando lui esordiva con la Juventus. Un po’ come Cristiano Ronaldo, anni trentasei, che non butta giù una goccia d’acqua senza che rientri nel piano alimentare studiato dal nutrizionista, lo svedese si è allungato la carriera abbracciando i progressi della scienza e della preparazione atletica, senza lasciare nulla all’improvvisazione. E i due, che insieme fanno quasi ottant’anni, sono in cima a quella classifica marcatori in cui il primo italiano a figurare è Ciro Immobile, anni trentuno.
Ciò che contraddistingueva la vita dell’atleta del passato erano le vaghe nozioni dietetiche, la poca attenzione al recupero muscolare tra una prestazione e l’altra. Il Milan Lab, creato nel 2002 con il professor Pierre Meersemann, ha fatto scuola nello studio della prestazione e nella prevenzione: oggi, per esempio, si sa che è proprio nella fascia tra i 25 e i 35 anni che si possono spremere, dal proprio corpo, le prestazioni migliori. Con buona approssimazione, da quel momento in poi la potenza aerobica di un atleta – vale a dire la capacità di consumare ossigeno – si riduce circa dell’1 per cento per ogni anno che passa. Ma se ci si nutre correttamente, si mantiene l’efficienza della muscolatura, si spendono ore in fisioterapia avendo la fortuna – o meglio, le sostanze – per farsi seguire da preparatore atletico, fisioterapista e osteopata, le buone pratiche contribuiscono a prolungamenti della vita sportiva in passato inimmaginabili.
Competitivi da ragazzi
Esiste, poi, un secondo effetto della scienza nello sport: trascurando le discipline in cui la forza esplosiva è preponderante rispetto a tutte le altre componenti – nella regola dei trent’anni, difatti, è incappato anche lo sprinter più grande di tutti, Usain Bolt – ciò che si osserva è che sempre meno teenager riescono a essere competitivi ad alto livello.
Al di là dei fenomeni, con risvolti penali, dell’atletica dell’est prima della caduta del muro di Berlino, nel libero mondo degli anni Novanta era il tennis a ospitare il numero più ampio di campionesse bambine. Martina Hingis vinse il torneo di Wimbledon e diventò la più forte giocatrice del mondo a sedici anni. Anna Kournikova, alla stessa età, prima di dedicarsi alla carriera da modella, trovò il tempo di entrare nella top ten mondiale. Ora, non succede più. Anzi: Serena Williams, pure lei come Ibra e Roger nata nel 1981, è ancora lì che punta a vincere uno Slam. Tra le prime dieci giocatrici del mondo, non ce n’è una che debba ancora compiere vent’anni.
Ciò è avvenuto anche per intervento legislativo: l’associazione tennis femminile, la Wta, ha tirato su paletti piuttosto rigidi, per evitare l’accesso troppo precoce al tennis professionistico. Conscia che una quindicenne potrebbe essere mal consigliata o, nei casi più gravi, rimanere traumatizzata da una fama e da ingaggi che arrivano e finiscono troppo presto. L’intenzione era quella di evitare che casi come la storia di Andrea Jaeger negli anni Ottanta o di Jelena Dokic nei Duemila, due baby fenomeni brutalizzati da padri disgraziati, bruciate in un lampo e tuttora alle prese con le scorie di una vita che altri avevano imposto loro, potessero ripetersi.
Ma anche nello sport maschile senza divieti di legge sono pochi coloro che riescono a essere competitivi da ragazzini: un Becker che vince Wimbledon a diciassette anni poteva valere nel 1985, non oggi. Perché le caratteristiche di molte pratiche, singole o di squadra, si sono sempre più evolute nella direzione di una prestazione atletica estrema, che coinvolge anche la maturità mentale.
E poi, dove c’è una componente tecnica, quella continua a progredire col tempo che passa, anche se il corpo prende a rallentare: ecco perché “vecchi” come Pandev, Dzeko, Quagliarella, Mertens nel calcio italiano possono continuare a dire la loro. Ecco perché, nel basket Nba, nella classifica degli atleti più longevi di sempre (l’associazione esiste dal 1946) si trovano, guarda il caso, concentrazioni di superstar che hanno appena smesso: Vince Carter, Dirk Nowitski, Manu Ginobili, Jason Terry e soci. E il Prescelto, LeBron James, ha l’età di Ronaldo. «Thirty is the new twenty», i trenta sono i nuovi venti, forse è un tantino tagliato con l’accetta come concetto, ma tutto sommato rappresenta bene lo spostamento in là dell’età della pensione.
Dopodiché, altro è competere, benché ad alto livello, altro è vincere. Se Federer ha ancora in sé le risorse per acciuffare un torneo dello Slam, si capirà nei prossimi mesi. Mentre il grande Rod Laver, nel 1969, rischiò di mancare l’impresa del Grand Slam perché la moglie, incinta, gli aveva imposto un ultimatum (o torni a casa da quel maledetto torneo, oppure faccio le valigie) oggi Federer, e con lui quelli che se lo possono permettere, spostano la propria vita in giro per tornei: moglie, babysitter, figli, team tecnico e fisico, talora pure il cuoco e l’incordatore personale. Meno stress, meno voglia di ritirarsi. Tra le ragioni del suo forfait agli ultimi Australian Open, lo svizzero ha citato l’impossibilità di soggiornare un mese dall’altra parte del mondo con i propri cari, causa Covid-19.
Chi segue il tennis sa che, da tempo, è stata lanciata una campagna di marketing dal nome NextGen, ovvero largo alla nuova generazione. Solo che le stagioni passano, eppure a vincere sono ancora e sempre gli stessi: Novak Djokovic (34 anni a maggio), Rafael Nadal (35 a giugno). I cosiddetti giovani, per adesso, restano a guardare e, alcuni di loro, iniziano a non essere più così nel fiore degli anni. Forse, arrivati ai trenta, finalmente toccherà a loro.
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