Dopo 12 stagioni al vertice e 4 anelli NBA vinti, i Warriors di Steph Curry sono stati eliminati nei preliminari dei play-off da Sacramento. È la fine di un’era per una formazione che ha imposto al mondo il tiro da tre come soluzione offensiva quasi esclusiva.
Quella della “fine di un’era” è una delle espressioni più usate nei racconti delle epopee sportive, così come il termine “dinastia” con il quale spesso va in coppia. In questo caso non si può non pensare che siano le scelte più azzeccate. I Golden State Warriors di Stephen Curry, Klay Thompson, Draymond Green con Steve Kerr al timone hanno indelebilmente segnato gli ultimi 12 anni di pallacanestro NBA con 4 titoli, il miglior record di sempre in una singola regular season (73-9, tolto addirittura ai Chicago Bulls di Michael Jordan) e una rivoluzione nei principi di gioco che guida la tendenza di tutte le squadre della Lega nell’enfasi del tiro da fuori come soluzione offensiva primaria.
Una vera, autentica, certificata dinastia. Che però, nella notte fra 16 e 17 aprile, sembra definitivamente arrivata al capolinea, con una mesta uscita di scena dalla postseason NBA, guadagnata attravero la porta di servizio dell’ultimo posto valido per i play-in: strapazzati per 118-94 dai Sacramento Kings (il cui gioco a sua volta è figlio dei principi cestistici resi vincenti dagli stessi Warriors, con il loro coach Mike Brown che fu assistente di Kerr per sei stagioni e tre titoli nella Baia). Con la coscienza di non poter essere più protagonisti e dover quantomeno diventare comprimari, se non lasciare definitivamente il palco giallo e blu.
Senza Thompson
Come immagine riassuntiva basta quella di Klay Thompson, il Robin di fianco al Batman Curry dei cosiddetti Splash Brothers, altra espressione diventata istituzione nei trionfi dei Warriors: contro i Kings ha chiuso con un triste 0/6 nel tiro da fuori, parte di uno 0/10 totale, per la prima partita della sua carriera senza segnare dai tempi in cui era un rookie, nella stessa stagione in cui aveva già perso il posto in quintetto per la prima volta dal 2012. Ora c’è la concreta possibilità che lasci la squadra in estate, alla scadenza del contratto (come l’espressione assunta a fine gara potrebbe lasciar intendere), rinnovatogli per cinque anni a cifre pesanti nel luglio 2019 nonostante un grave infortunio nelle finali: prima la rottura del legamento crociato, seguito nell’anno successivo da quella del tendine d’Achille.
È la testimonianza della filosofia adottata dalla franchigia, fiducia totale sui propri capisaldi, al di là del logoramento fisico o delle bizze comportamentali in aumento: quest’ultimo, il punto debole dell’altro pilastro Draymond Green. La crescita di comportamenti al limite con avversari e compagni è proseguita con l’avanzare dell’età, rendendone sempre più complicata la gestione, con altri tre anni di contratto a 77 milioni di dollari complessivi dopo il rinnovo della scorsa estate. Quando fu di fatto preferito all’ex compagno Jordan Poole, colpito con un pugno nel corso della preparazione estiva prestagionale del 2022, pochi giorni prima della ricca estensione contrattuale dello stesso Poole.
Il caso Chris Paul
Poole doveva fare da trait d’union fra presente e futuro. Rappresenta invece un fallimento al quale i Warriors hanno provato a riparare solo un anno dopo, con lo scambio con un altro veteranissimo, il 38enne Chris Paul, che si è dimostrato allo stesso modo ben oltre gli anni migliori. Ed è quel ponte fra ciò che è stato e ciò che dovrebbe essere, nei sogni più belli di ricambio senza abbandonare il vertice, a mancare a Golden State: Andrew Wiggins per problemi personali non ha dato seguito al salto di qualità mostrato nelle finali 2022, quelle dell’ultima corsa di successo dei gialloblu che sapeva di canto del cigno, unica gemma in un quinquiennio (dalle finali perse nel 2019 in poi) altrimenti fatto di tante ombre e delusioni. Gli altri giovani, capeggiati da Kuminga e Podziemski, sono stati coinvolti in ritardo da un coach Kerr restio all’avvicendamento tra le due generazioni.
Forte della forma di uno Stephen Curry rimasto ancora scintillante e fra i migliori della Lega (26.4 punti a partita con il 40.8% da tre), ma a 36 anni non eterno. Intorno agli ultimi suoi guizzi la franchigia dovrà provare ad aprire la transizione verso una nuova epoca dell’oro, capendo al meglio come costruire un roster futuribile con dei (probabili) sacrifici da fare verso chi rappresenta il passato: un passato che tanto ha dato ad appassionati e tifosi, e che con quest’ultimo episodio sembra ormai definitivamente da consegnare alla storia.
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