«Sembrava di essere in un processo kafkiano». Elisabetta Della Corte del Comitato Free Maysoon Majidi descrive così l’udienza che si è tenuta ieri a Crotone, nel processo a carico della 27enne attivista curdo-iraniana per i diritti delle donne, laureata in regia teatrale, accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per questo in custodia cautelare nel carcere della città. Arrivata sulle coste calabresi il 31 dicembre 2023, è stata subito accusata di aver aiutato chi guidava l’imbarcazione. È salpata dalla Turchia in cerca di un luogo sicuro, ma in Italia ha trovato il carcere.

«Chi vorrebbe aiutarla non riesce e si presentano possibilità che poi non si realizzano», continua Della Corte, descrivendo come sul piano pratico sembra non esserci alcuna possibilità di reazione, dopo oltre sei mesi di reclusione. Nemmeno le visite dei parlamentari e l’attenzione mediatica hanno portato alla revoca della custodia cautelare. È infatti la terza volta che i giudici rigettano la richiesta di Majidi di sostituire la misura con quella degli arresti domiciliari o ottenere la liberazione. Ma per il collegio penale del tribunale di Crotone permane il pericolo di fuga.

«Così Maysoon resterà in custodia cautelare sulla base di testimonianze già smentite dalle stesse persone che l’avevano accusata», hanno dichiarato la deputata del Partito democratico e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo Laura Boldrini e il vicecapogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera, Marco Grimaldi.

Sono loro ad aver portato la storia di Majidi all’attenzione del parlamento, senza però ottenere le risposte richieste dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. «Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», continuano i parlamentari, «sta trasformando la salvezza in incubo per tantissime persone in fuga da situazioni terribili. Continuiamo a chiedere la traduzione ai domiciliari per Maysoon, che si trova in una condizione di depressione e debilitazione fisica».

Nessuna spiegazione

Da mesi la ragazza si chiede: «Perché sono qua?» Non si spiega come sia potuto accadere che, fuggita con il fratello grazie ai risparmi del padre dall’Iran, paese in cui è in atto una repressione sanguinaria, sia stata accusata di un reato così grave. Dopo il decreto Piantedosi – varato a seguito del naufragio di Cutro – rischia infatti una pena da sei a sedici anni e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo.

I due fratelli hanno pagato il viaggio in tutto 17mila euro. Lo attesta una ricevuta. Ma gli inquirenti fondano le accuse sulle dichiarazioni di due persone su 77 passeggeri che viaggiavano sul veliero. Gli accusatori, raggiunti in Germania e in Inghilterra dal suo avvocato Giancarlo Liberati e anche da alcuni media, come Le Iene, hanno detto successivamente di non aver pronunciato quelle parole e che probabilmente si trattava di un errore di traduzione. Al contrario, la procura non è stata in grado di rintracciare i testimoni nell’incidente probatorio, svolto dopo 5 mesi.

Majidi ritiene ciò che le sta accadendo un’ingiustizia e ha anche inviato una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Sono accusata di aver agito da scafista sulla base di alcune dichiarazioni, forse mal interpretate, rilasciate da due testimoni all’autorità giudiziaria (e smentite, peraltro, dagli stessi) mentre sono solo una delle persone migranti e richiedenti asilo che come me fuggono da situazioni di acuta sofferenza», ha scritto. A giugno per circa due settimane ha deciso di fare uno sciopero della fame, poi interrotto. È dimagrita molto, fa sapere l’avvocato, pesa 38 chili.

Dichiarazioni spontanee

Molto provata, Majidi ha partecipato all’udienza e ha deciso di raccontare del suo viaggio in prima persona, facendo dichiarazioni spontanee. «Io e mio fratello abbiamo fatto questo viaggio per salvarci la vita ed essere liberi in Europa», ha detto ai giudici, precisando di essere partita il 26 dicembre. Ha poi spiegato al collegio di aver trascorso tutto il viaggio sottocoperta e di aver chiesto di salire a prendere aria per un malore.

«Ho iniziato a litigare con una donna che prima di partire aveva preso a tutti il cellulare. A quel punto ho detto che quando fossimo arrivati li avrei denunciati alla polizia italiana perché ci stavano maltrattando. Questo ha scatenato antipatia e odio nei miei confronti da parte di chi stava in coperta. La mia minaccia di denuncia probabilmente ha dato agli altri una immagine distorta di me e per questo hanno pensato che dovessi essere incolpata», ha detto.

Riponeva speranze nella richiesta di domiciliari. Di fronte al rigetto è scoppiata in un pianto e ha chiesto di poter mostrare al collegio due foto che potrebbero scagionarla. Una, riporta l’Ansa, mostra la ragazza e il fratello sottocoperta, nell’altra invece c’è una donna vicino all’uomo che guidava il veliero. E ha precisato: «Questa è quella che mi ha preso il cellulare. Mi si incolpa di essere una scafista ma si vede che la persona vicina al capitano è un’altra. Io e mio fratello eravamo sotto» ed è evidente nel video, ha detto.

Il processo dovrebbe concludersi a novembre. A sostegno della ragazza fuori dal tribunale c’era un sit in del Comitato Free Maysoon Majidi, formato da diverse organizzazioni che chiedono la sua scarcerazione. «La ragazza è solo la punta dell’iceberg», conclude Della Corte, «di questo sistema populista penale che impone un martirio a centinaia di persone».

È complicato trovare dati precisi e aggiornati. Secondo il rapporto dell’Arci Porco Rosso di Palermo, dal 2013 al 2021 circa 3.200 persone sono state fermate con l’accusa di essere scafiste. Ma è ormai accertato che chi riceve questa accusa è spesso un migrante messo al timone, senza alcuna connessione con l’organizzazione dei trafficanti, oppure quella barca non l’ha proprio guidata.

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