- Una marea di pañuelos fuxia, i fazzoletti di stoffa simbolo di lotte delle donne, ha invaso le strade del centro di Roma, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
- Sono stati organizzati pullman da 20 città italiane per gridare che «ci vogliamo vive» e ricordare che il patriarcato è frutto della nostra cultura.
- «Sono qua perché ho subito violenza dalla persona che pensavo che più mi amasse al mondo», racconta B.L.«La violenza si compone nel quotidiano», continua, «nel possesso. È subdola, perché entra dentro la tua vita e non te ne accorgi, o te ne accorgi troppo tardi».
Una marea di pañuelos fuxia, i fazzoletti di stoffa simbolo di lotte delle donne, ha invaso le strade del centro di Roma, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Sono stati organizzati pullman da 20 città italiane - Bologna, Brescia, Genova, Mantova, Reggio, Calabria - e voli da Palermo, confluiti nella capitale per gridare che «ci vogliamo vive» e ricordare che il patriarcato è frutto della nostra cultura e la violenza è strutturale. «Noi oggi siamo qui per tantissime ragioni», dice Alessia Piermarini del Collettivo Malelingue di Teramo, «per la violenza del patriarcato a tutto tondo, perché non è una violenza solo fisica, è anche psicologica».
Partito alle 14 da piazza della Repubblica un lungo corteo femminista e transfemminista si è diretto a piazza San Giovanni, dove una distesa di candele ha simbolicamente ricordato tutti i femminicidi, i lesbicidi e i transicidi. «Noi siamo da sempre in piazza contro la violenza. Personalmente dal 1971 a oggi», dice Giuliana Pinselli, 81 anni, della Casa delle donne di Modena. «In questo momento è importante esserci, perché c’è un attacco generale contro le donne che si unisce al disastro del Covid. C’è un bisogno estremo di farci sentire, per reclamare e per imporre», continua. In cinquant’anni la situazione per i diritti delle donne è cambiata, ma a volte «anche in peggio», dice Pinselli, che sottolinea un elemento che rimane costante nel tempo: «Tutta la società capitalistica si regge sul lavoro non pagato di noi donne ed è una situazione che va affrontata. È una delle cause della violenza in famiglia».
Le chiavi di casa
La violenza avviene nella maggior parte dei casi tra le mura domestiche. «Sono qua perché ho subito violenza dalla persona che pensavo che più mi amasse al mondo», racconta B.L. (le iniziali sono a tutela della persona intervistata). «La violenza si compone nel quotidiano», continua, «nel possesso. È subdola, perché entra dentro la tua vita e non te ne accorgi, o te ne accorgi troppo tardi». B.L. evidenzia quindi l’importanza di partire dalla prevenzione nelle scuole, dove lavora, nell’educare bambine e bambini alla diversità, perché «alcune professoresse dicono che non hanno tempo per poter intervenire» a favore di un’educazione che contrasti la violenza maschile contro le donne.
Per questi motivi all’ingresso di via Cavour migliaia di persone hanno preso in mano e agitato le chiavi di casa, perché «l'assassino ha le chiavi di casa», le stesse che «la sera teniamo in mano anche come strumento di autodifesa», dicono le attiviste di Non una di meno.
L’osservatorio
Nel 46 per cento dei casi infatti, secondo i dati dell’Osservatorio nazionale femminicidi, lesbicidi e transicidi, l’assassino era il partner, mentre nel 15 per cento dei casi l’uccisione è avvenuta per mano dell’ex partner. Gli osservatori istituzionali e le statistiche nazionali non bastano. Per questo Non una di meno il 25 novembre scorso ha reso pubblico l’Osservatorio nazionale femminicidi, lesbicidi e transicidi, che raccoglie dati e analizza le caratteristiche dei femminicidi. «È emerso che molte donne sono state uccise con un'arma da fuoco e che si tratta nella maggior parte dei casi di uomini italiani», dice Serena di Non una di meno Roma. Il nuovo osservatorio ha l’obiettivo di «produrre una narrazione dal basso del fenomeno dei femminicidi, che ancora si affrontano come un’emergenza che riguarda il privato delle case. E invece è solo la punta di un iceberg di violenza che attraversa ogni ambito della nostra esistenza», continua.
Il reddito di libertà
Il reddito di libertà per le donne che intraprendono un percorso di fuoriuscita dalla violenza è essenziale e, secondo i movimenti femministi, le politiche messe in campo dalle istituzioni sono ancora insufficienti. «Noi chiediamo un reddito di autodeterminazione per liberare le donne dal ricatto della precarietà e della violenza, che non sia condizionato e che non sia vincolato al reddito familiare, né alla ricerca del lavoro», spiega Serena di Non una di meno Roma. Secondo D.i.R.e., Donne in rete contro la violenza, la circolare INPS che definisce requisiti e modalità di accesso rimane un intervento di facciata.
«Le istituzioni si sono appropriate del nostro linguaggio, delle nostre parole, dei nostri temi. Ritroviamo nei dispositivi legislativi e nel nuovo Piano nazionale antiviolenza le nostre parole prive, però, dei contenuti», dice Antonella Veltri, presidente di D.i.R.e., alla piazza. «Manca un piano attuativo. La Convenzione di Istanbul viene citata dalle istituzioni ma non viene applicata. Dobbiamo cambiare la cultura di questa società», continua Veltri.
Donne migranti
Associazioni e movimenti che prendono parte al corteo portano in piazza anche le istanze delle donne migranti, che più di tutte subiscono violenza. «Noi siamo donne, ma siamo bianche, etero e abbiamo dei privilegi rispetto alle donne migranti», dice Alessia Piermarini, del collettivo Malelingue. L’associazione Differenza Donna a Roma ha un centro per vittime di tratta e ospita Leila (nome di fantasia), afghana, che ricorda che la situazione in Afghanistan per le donne è sempre più difficile. «Erano già trattate come schiave prima, ma oggi per le donne è ancora più difficile lavorare, uscire, ricevere un’educazione. Per me è un’opportunità essere qui e vedere così tanti uomini che partecipano a questa manifestazione», dice.
Migena Lahi è la responsabile del centro per le vittime di tratta di Differenza Donna e ha dedicato il suo cartello «alle 20mila donne kosovare, alle donne bosniache e croate stuprate durante la guerra, che non hanno ancora ottenuto giustizia. Lo stupro è un crimine di guerra», denuncia Lahi.
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