- Prima di Matteo Messina Denaro c’era un altro boss inseguito dagli inquirenti, il capo dei capi di cosa nostra, Bernardo Provenzano. Pietro Riggio era uno di quelli entrati in contatto con la rete di protezione del mafioso e avrebbe potuto condurre alla sua cattura.
- Sulle dichiarazioni di Riggio, il consolidamento delle sue verità si è aperta un’indagine giudiziaria delicatissima che parla di ostacoli, silenzi attorno alle sue confessioni.
- Angiolo Pellegrini e Alberto Tersigni sono due ex generali dell’arma dei carabinieri, impegnati nel contrasto al fenomeno mafioso per una vita, e che oggi figurano come indagati per depistaggio, entrambi si dicono totalmente estranei alle contestazioni.
Prima di Matteo Messina Denaro c’era un altro boss inseguito dagli inquirenti, il capo dei capi di cosa nostra, Bernardo Provenzano. Pietro Riggio era uno di quelli entrati in contatto con la rete di protezione del mafioso e avrebbe potuto condurre alla sua cattura. Sulle dichiarazioni di Riggio, il consolidamento delle sue verità si è aperta un’indagine giudiziaria delicatissima che parla di ostacoli, silenzi attorno alle sue confessioni.
Angiolo Pellegrini e Alberto Tersigni sono due ex generali dell’arma dei carabinieri, impegnati nel contrasto al fenomeno mafioso per una vita, e che oggi figurano come indagati per depistaggio, entrambi sono stati destinatari di un avviso di conclusione delle indagini preliminari, preludio a una possibile richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Caltanissetta, guidata da Salvatore De Luca.
I fatti riguardano il periodo nel quale i due sono stati impegnati alla Dia, la direzione investigativa antimafia, e ai rapporti instaurati con l’allora confidente, oggi collaboratore di giustizia, Pietro Riggio. Proprio sulla ricostruzione dei rapporti e delle confidenze, secondo i pubblici ministeri, ci sono opacità e i due avrebbero con le loro azioni ostacolato l’attività di riscontro delle parole di Riggio.
I due generali in pensione si difendono, si dicono estranei alle accuse e amareggiati per aver speso un’intera vita contro le mafie e oggi costretti a difendersi da questa accusa infamante per chi ha servito lo stato, quella di aver depistato le investigazioni.
Il collaboratore Pietro Riggio
Tersigni arriva alla direzione investigativa antimafia di Palermo nel 2000, ma inizialmente la gestione dei rapporti con Riggio sono curati dall’allora colonnello Pellegrini. In quel periodo il centro Dia di Palermo aveva il compito di cercare Bernardo Provenzano, il capo di cosa nostra, ancora latitante e poi arrestato nel 2006.
Pietro Riggio era un ex poliziotto della penitenziaria prima di diventare un confidente degli inquirenti e, successivamente, collaboratore di giustizia. Parlava di infedeli servitori dello stato, ascoltava i segreti della famiglia mafiosa di Caltanissetta, rivelava fughe di notizie ed era entrato nelle grazie di un sodale dell’allora latitante Bernardo Provenzano, Angelo Schillaci. Ma avrebbe anche rivelato su un «fatto eclatante» che si sarebbe dovuto verificare nel 2001 a Palermo, l’attentato al magistrato Leonardo Guarnotta. Una "soffiata" mai verificata nonostante, dopo le confidenze di Riggio, che disse di aver saputo le informazioni da un poliziotto colluso, siano state effettuate intercettazioni proprio a carico dell'agente sospettato.
Trattativa stato-mafia
I due generali in pensione vengono ascoltati dalla procura nissena e poi successivamente all’interno del processo, che era in corso davanti alla corte d’Appello di Palermo, sulla trattativa stato mafia, precisamente il 18 gennaio 2021. Lo stesso procuratore generale, Giuseppe Fici, precisa che le dichiarazioni dei due generali in pensione apparivano contrassegnate da vuoti documentali e dichiarativi.
«Ci sono tante criticità nelle deposizioni di Pellegrini e Tersigni, una è estremamente significativa ed è la mancanza di relazioni di servizio o di appunti riservati, nei primi 16-17 mesi della pluriennale interlocuzione tra la Dia di Palermo ed il pregiudicato e confidente Pietro Riggio», diceva Fici, il procuratore generale nel febbraio 2021. Ma non solo.
«Di documentale c’è ben poco (...) Non sono mai state redatte relazioni e appunti riservati? E perché, se così è? Come si fa a gestire in questo modo, quando poi nella fase successiva è ben documentato come correttamente deve essere gestito un rapporto di questo genere?
È sparito tutto? E perché? Sono domande a cui non si può e non si deve sfuggire nel valutare le circostanze riferite dal Riggio che non sono state confermate dai due ufficiali dei carabinieri, prime fra tutti il progettato di attentato al dottor Guarnotta, ma anche il disinteresse all'idea del Riggio, che aveva in mano la fascetta di banconote, che con una microspia avrebbe potuto viaggiare verso Provenzano», diceva Fici. Da una parte ci sono due servitori dello stato e dall’altra un pluripregiudicato come Riggio.
Ora arriva l’avviso di conclusione delle indagini per depistaggio a carico di entrambi ed altri soggetti, al momento non identificati. Secondo i pm nisseni avrebbero ostacolato le indagini relativo al procedimento aperto per acquisire dati di riscontro alle dichiarazioni di Pietro Riggio, attraverso dichiarazioni elusive, silenzi e omissioni rispetto a quello che era avvenuto.
«Ne uscirò a testa alta come sempre nella mia lunga carriera, io sono assolutamente tranquillo», dice Pellegrini che è stato, negli anni ottanta, fidato collaboratore del giudice, Giovanni Falcone, poi ucciso da cosa nostra nel 1992.
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