- Se l’ipermercato sta morendo, l’iperconsumo è in perfetta salute. Gli ultimi anni, e il 2020 in particolare, hanno certificato un trend ormai inesorabile. Le nostre società occidentali sono afflitte da un demone: il consumismo.
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La fotografia della spesa non è più il carrello del sabato stracolmo di prodotti, ma un cestino riempito con frequenza più volte alla settimana. Senza contare l’ecommerce, che ha spiccato un balzo del 117 per cento anno su anno.
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In questo mondo a due dimensioni, i diritti dei lavoratori lungo la filiera alimentare, gli impatti ambientali e climatici della produzione e l’industrializzazione dei processi produttivi finiscono cancellati dalla foga di vivere l’istante.
Se l’ipermercato sta morendo, l’iperconsumo è in perfetta salute. Gli ultimi anni, e il 2020 in particolare, hanno certificato un trend ormai inesorabile. Le nostre società occidentali, Italia compresa, sono afflitte da un demone difficile da tenere a bada: quello del consumismo.
È come se la crescente insicurezza, la fragilità e l’insoddisfazione di enormi quote di popolazione fosse tenuta a bada da pratiche di acquisto compulsivo, che svolgono la funzione di valvola di sfogo di esistenze precarie.
Il cibo è per eccellenza il primo rifugio: si mangia fuori orario perché il lavoro si prolunga, si mangia fuori casa per godere di una libertà elargita con il contagocce, si acquista a domicilio il cibo pronto per dilatare i momenti di ozio o al contrario guadagnare tempo per gli straordinari.
A volte non si bada a spese, ma spesso si tira la cinghia. Un trend che i cambiamenti strutturali nel mondo del commercio alimentare ci raccontano con i dati raccolti dall’Istituto Nielsen.
Nell’anno della pandemia sono crollate le vendite in valore degli ipermercati (-9 per cento), segno che i comportamenti di acquisto stanno cambiando molto rispetto a qualche decennio fa, quando il centro commerciale era il tempio delle famiglie. Crescono invece i discount (+8 per cento), che attraggono le nuove povertà, così come i minimarket (+6 per cento).
La fotografia della spesa non è più il carrello del sabato stracolmo di prodotti, ma un cestino riempito con frequenza più volte alla settimana. Senza contare l’ecommerce, che ha spiccato un balzo del 117 per cento anno su anno.
Vero, il lockdown ha rappresentato un momento di eccezione, ma ha anche accelerato un processo già in corso, spingendo gli attori economici a bruciare le tappe per venire incontro a una nuova domanda.
Mangiare a casa
Dopo questa sperimentazione su larga scala, non sarà facile tornare indietro. E forse non c’è neppure l’interesse, visto che le grandi piattaforme di logistica e distribuzione hanno scommesso forte sul cibo a casa, mentre i supermercati allargano il settore della spesa a domicilio.
Secondo i dati raccolti dall’osservatorio eCommerce B2c del Politecnico di Milano, gli acquisti alimentari tramite il web sono cresciuti dell’85 per cento nel 2020 rispetto al 2019, superando gli 850 milioni di euro, pari al 40 per cento dell’ecommerce alimentare.
Due terzi delle vendite sono generate da supermercati tradizionali e industrie di marca, che hanno potenziato la propria offerta online. Quel che rimane è coperto dalle cosiddette “Dot Com”, supermercati e aggregatori online specializzati nella spesa a domicilio.
Accanto a questo comparto c’è un crescente commercio di prodotti enogastronomici “di nicchia”, che valgono però la bellezza di 600 milioni di euro e rappresentano un altro fenomeno in crescita vorticosa, tanto da coprire il 27 per cento dell’alimentare a portata di click.
Come la spesa da casa, anche la consegna a domicilio di cibo pronto vive un’epoca di boom. Piattaforme aggregatrici e ristoranti tradizionali sguinzagliano a ogni ora eserciti di rider per le vie delle metropoli, ma anche dei piccoli centri, con una capillarità che racconta quant’è profonda la trasformazione in cui siamo immersi.
Nel 2020 gli acquisti di questo segmento valevano 706 milioni, pari al 33 per cento del flusso di cibo che viaggia sul web.
Mangiare fuori
Che la cucina stia diventando uno spazio sempre più marginale nelle nostre case è dimostrato non solo dall’uso delle app di delivery, ma anche dalla crescita del “cibo fuori”. I dati ci dicono che il rimbalzo non ha ancora riportato i consumi ai livelli pre-pandemia, ma potrebbe essere solo questione di tempo.
Nel secondo trimestre 2021, la Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) segnala che l’indice del fatturato delle imprese della ristorazione è cresciuto dell’82,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, recuperando ben 6,4 miliardi di euro.
Prima del Covid quasi otto italiani su dieci consumavano più o meno abitualmente cibo al di fuori delle mura domestiche, con circa 13 milioni di persone abituate a pasteggiare almeno quattro volte a settimana al ristorante o al bar. Una volta superato definitivamente lo stato di eccezione, è probabile che i trend torneranno ad allinearsi a quei valori.
Cibo senza storia
Nonostante una nicchia crescente di consumatori attenti, tuttavia, è in atto un allontanamento tra le fasi della produzione e del consumo alimentare, con cibi sempre più trasformati e pronti da mettere in tavola. L’effetto è una perdita di contatto con la storia dei prodotti che arrivano nei nostri piatti.
In questo mondo a due dimensioni, i diritti dei lavoratori lungo la filiera alimentare, gli impatti ambientali e climatici della produzione e l’industrializzazione dei processi produttivi finiscono cancellati dalla foga di vivere l’istante. Un istante che i grandi brand pubblicizzano con sapienza e fascino, alimentando uno scollamento che tuttavia riguarda anche loro stessi, a tratti tracimando nelle gaffes in stile “Renatino”.
Ci sono mille ragioni per non gettare la croce sui consumatori, che vedono ridursi il tempo di vita in funzione della crescita dei tempi di lavoro, cercano spazi di socialità imperniati sul cibo e assistono a una erosione dei loro stessi redditi e diritti.
Ce ne sono altrettante invece per porre la questione alla politica e all’industria alimentare. Non è certo colpa dei consumatori, infatti, se la fame nel mondo è in crescita invece che in calo, mentre aumentano fenomeni come l’obesità e le patologie alimentari.
C’è un problema di cattiva qualità della produzione, pessima distribuzione e conseguente spreco che attanaglia il mondo del cibo.
La Fao stima che un terzo di ciò che viene prodotto finisca disperso lungo la filiera: lasciato in campo perché il prezzo è talmente basso da non valere la raccolta, scartato per il suo aspetto estetico o le sue dimensioni fuori standard, distrutto nei processi di trasformazione, invenduto dalla distribuzione o gettato nella spazzatura dalle famiglie.
Più che nell’antropocene, questa è l’epoca degli scarti: potremmo chiamarla wasteocene, secondo una definizione coniata dallo storico dell’ambiente Marco Armiero nel suo ultimo libro, L’era degli scarti (Einaudi, 2021).
Armiero ci spinge a spostare lo sguardo da un concetto, quello di antropocene, che sembra indicare la responsabilità di tutta l’umanità, senza distinzioni, nel degrado ambientale. Ragionare sul wasteocene, invece, ci impone di concentrarci sulle dinamiche con cui la società produce scorie – umane e non solo – nei suoi processi metabolici.
La lente del sociologo
Osservare la nostra epoca con la lente dei sociologi, in effetti, è un esercizio particolarmente interessante. Un maestro di questa disciplina, Zygmunt Bauman, lo ha fatto per tanti anni coniando illuminanti definizioni che contenevano al contempo analisi e proposta. Che ci trovassimo immersi nell’era dei rifiuti lo aveva denunciato una ventina di anni fa, con il suo saggio Vite di scarto.
La turbinosa spinta del progresso, la spinta alla produttività e alla crescita costante generano – secondo Bauman – una quantità di scarti non solo materiali, ma anche umani e viventi.
Il progetto di sviluppo e il processo di innovazione lasciano indietro gli individui «inutili», che si trasformano in «zavorre», rifiuti. Sono donne, uomini e forme viventi non direttamente utili allo scopo, «che non si adattano alla forma progettata né possono esservi adattati».
Questa condizione ci risulta evidente quando pensiamo al cibo, al destino di quella carota rinsecchita nel cassetto del frigorifero che finirà nella spazzatura. Ma con un po’ di fantasia e una buona dose di sociologia politica potremmo connettere la sua storia con quella di un mondo di donne e uomini “in esubero”, così come con gli ecosistemi utilizzati sempre più come fonte di estrazione e poi di discarica.
È questa la visione del mondo che ha originato la monocoltura, l’allevamento intensivo, il caporalato e lo sfruttamento in agricoltura. Ma anche il boom delle fonti fossili e il riscaldamento globale. È l’idea che “per natura” ci sarà sempre qualcuno a portare il peso di chi si lancia nella conquista di nuove frontiere del mercato.
Una politica dei perdenti
Esiste una via per uscire da questo impasse, e passa per il recupero da parte della politica delle sue prerogative: la tutela dei più deboli e degli ecosistemi che sorreggono le nostre esistenze.
Le domande da porre sono molte: come affrontare il nodo delle 200mila persone che in Italia raccolgono il cibo dai campi e si trovano esposte al rischio di sfruttamento? Come indirizzare le risorse e le norme per fermare la distruzione ecologica causata dall’incedere dell’agricoltura industriale? Come offrire a lavoratori e cittadini tempi e spazi di vita per un consumo consapevole? Come regolare l’intermediazione delle piattaforme digitali e della grande distribuzione, che schiacciano prezzi e diritti?
Le risposte giuste sono quelle che permetteranno di costruire politiche e visioni inclusive e capaci di mantenere una sincronia con i processi di rigenerazione naturale. Mai come oggi, nell’era dello spreco, è fondamentale avviare un’azione riparatrice che parta proprio dalla terra e dal cibo, per preservare la base della vita dall’esaurimento fisico e dare l’avvio a una redistribuzione da troppo tempo rimandata.
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