L’India è da settimane l’epicentro mondiale del Covid-19. Oltre 300mila nuovi casi vengono registrati ogni giorno e gli ospedali chiudono per mancanza di ossigeno e posti letto. I quasi 4mila decessi al giorno denunciati dalle autorità sono una stima per difetto e ogni giorno centinaia se non migliaia di persone muoiono nei villaggi e nelle campagne, senza mai avere la possibilità di ricevere un tampone.

Aria di India

Quello dell’India è stato un disastro inaspettato. Con solo il 6 per cento della popolazione che ha più di 65 anni, in molti si aspettavano che anche durante una grave ondata epidemica la maggior parte delle persone avrebbe trascorso la malattia a casa senza bisogno di particolari cure mediche.

«Ma una popolazione di mezza età con una salute relativamente fragile ha in parte eliminato questo vantaggio», ha scritto questa settimana Vageesh Jain, docente di salute pubblica allo University College di Londra.

E tra le ragioni che spiegano come mai la salute degli indiani di 40 e 50 anni sia così cattiva c’è la qualità dell’aria. Delhi è la capitale più inquinata del mondo e l’India ospita 22 delle città con la peggiore qualità dell’aria. Quasi il 18 per cento di tutti i decessi nel paese durante il 2019 erano collegati all’inquinamento.

Un numero crescente di studi sembra confermare che una popolazione sottoposta a questo tipo di prova è più vulnerabile al Covid, anche in fasce d’età che normalmente dovrebbero avere rischi di decesso molto più bassi.

Covid-19 e inquinamento

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, nove persone su dieci vivono in luoghi dove l’inquinamento supera le linee guida raccomandate. I morti a causa della qualità dell’aria in ambienti interni ed esterni sono stimati in circa otto milioni ogni anno.

Sembra ormai sicuro che nell’ultimo anno l’inquinamento dell’aria abbia contribuito in maniera significativa ad aggravare l’epidemia di Covid-19. Decine, se non centinaia, di studi sono stati pubblicati negli ultimi mesi e se ancora nessuno rivendica di aver trovato la prova definitiva, il loro orientamento è chiaro.

Il collegamento tra inquinamento e Covid-19 è intuitivo: la cattiva qualità dell’aria contribuisce a danneggiare il sistema respiratorio e a indebolire quello immunitario, due fattori strettamente collegati alla possibilità di subire gravi conseguenze a causa della malattia.

Lo scorso autunno una serie di studi hanno messo in evidenza un altro pericolo. Il particolato, cioè l’insieme delle particelle inquinanti presenti nell’aria, incrementa l’attività di un recettore, chiamato Ace-2, presente sulla superficie di alcune cellule, in particolare all’interno dei polmoni. Questo recettore è una delle principali “serrature” che il coronavirus utilizza per penetrare nelle cellule e iniziare a riprodursi.

«Quindi abbiamo un “doppio colpo” – ha scritto Thomas Münzel, professore all’università di Mainz e uno degli autori di uno studio pubblicato lo scorso ottobre dalla società europea di cardiologia – L’inquinamento danneggia i polmoni e l’incremento dell’attività di Ace-2 favorisce l’ingresso del virus nei polmoni e probabilmente nei vasi sanguini e nel cuore».

Da Delhi alla Padania

La pianura padana è un’altra delle aree più inquinate del mondo. Da anni è ai vertici delle classifiche europee per la peggiore qualità dell’aria e secondo una ricerca pubblicata lo scorso gennaio da The Lancet Planetary Health le città di Brescia, Bergamo e Vicenza sono al primo, secondo e quarto posto per incidenza di morti causate dal Pm2,5, uno dei principali agenti inquinanti. Tra le prime 30 posizioni nella classifica ci sono diciannove città del Nord Italia.

Fin dallo scorso marzo, quando il Covid-19 ha fatto la sua improvvisa comparsa in Lombardia, l’inquinamento è stato indicato tra i possibili responsabili della violenza con cui il contagio aveva colpito la regione. L’analisi dei dati nei mesi successivi ha confermato che durante la prima e durante parte della seconda ondata il numero di decessi in eccesso era significativamente superiore al nord rispetto al sud.

Anche se le possibili cause di questo fenomeno sono numerose e il loro impatto è difficile da isolare e verificare, sembra che l’inquinamento sia una di quelle che nella lista meritano un posto speciale.

In uno studio pubblicato a novembre, ad esempio, alcuni ricercatori dell’università di Harvard stimano che la mortalità da Covid-19 possa aumentare fino all’11 per cento ogni microgrammo in più di esposizione a lungo termine al Pm2.5.

Inquinamento e contagi

C’è un altro aspetto della relazione tra Covid-19 e inquinamento. Secondo alcuni, la presenza di particolato nell’aria potrebbe favorire i contagi, poiché il virus si legherebbe alle particelle inquinanti, restando così in aria più a lungo.

Questa relazione è ancora controversa. Uno studio di un gruppo di ricercatori italiani pubblicato a marzo e basato su un’analisi che ha coinvolto 63 paesi in cinque continenti mostra «un possibile collegamento causale tra i livelli di particolato e l’incidenza del Covid-19», pari all’11,5 per cento di casi in più per ogni dieci microgrammi di Pm10. Questo collegamento viene invece respinto da molti altri scienziati, come quelli della Società italiana aerosol, del Cnr e dell’Arpa Lombardia.

Ma indipendentemente da chi abbia ragione, ci sono ormai sufficienti evidenze scientifiche per dire che abbiamo una ragione in più per contrastare l’inquinamento. La lotta alle attuali e future pandemie.

 

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