In molti dei magazzini semiautomatizzati di Amazon ogni lavoratore agisce in un’area estremamente ridotta, spesso senza nemmeno avere contatto visivo con i colleghi. Ciascuno di loro è costantemente monitorato da videocamere e da algoritmi di riconoscimento immagini, mentre la rapidità con cui le mansioni vengono svolte è controllata da un grande cronometro digitale.

Come ha raccontato Jean Baptiste Malet, autore del libro inchiesta En Amazonie, «mentre lavori, qualunque cosa tu faccia è registrata. Ogni movimento è registrato, metro per metro. Il computer è lo strumento essenziale del lavoro, perché senza quello non puoi svolgere nessun compito. È la macchina che dirige i movimenti. (...) Il computer calcola inoltre la tua produttività tre volte per turno».

Un monitoraggio algoritmico che segnala ai supervisori dei magazzini chi non ha prestazioni sufficientemente rapide o chi si è preso una breve pausa, magari per andare in bagno senza aver richiesto la necessaria autorizzazione. In alcuni casi, secondo quanto segnala invece Brishen Rogers sulla Boston Review, l’algoritmo arriva a segnalare quali rapporti di lavoro andrebbero interrotti.

Non solo Amazon

Altrove, lontano dai magazzini di stoccaggio merci, gli impiegati di un qualunque ufficio potrebbero essere monitorati, anche a loro insaputa, tramite strumenti come Insightful: un software che, secondo quanto riportato sul sito aziendale, è utilizzato da oltre 130mila aziende nel mondo e che permette di calcolare quante ore ogni dipendente ha impiegato in maniera “produttiva” e quante invece in maniera “improduttiva”, stimando anche il tasso di efficienza e la variazione percentuale rispetto al mese o alla settimana precedente.

Sempre sul sito viene spiegato come Insightful sia un sistema di «monitoraggio impiegati» che «misura e aumenta la produttività analizzando le attività in tempo reale». E come funziona un sistema di questo tipo? Prima di tutto, tenendo traccia di quali app o siti web gli impiegati stiano utilizzando o visitando, scattando poi screenshot in momenti casuali per verificare che il lavoratore sia seduto davanti al computer e infine controllando i registri di attività per controllare quanto tempo il lavoratore è rimasto inattivo.

Non ci sono ulteriori dettagli su quali attività nello specifico vengano monitorate, ma in altri casi è stato reso noto come questi software di monitoraggio dei lavoratori – tra i quali troviamo anche Connecteam, Clockify o ActivTrak – siano in grado di controllare, per esempio, quante mail siano state spedite, quanti file aperti, quante volte si sia intervenuto nei documenti condivisi con i colleghi e molto altro ancora. Tutto allo scopo di poter quantificare la produttività di un lavoratore e controllare quanti momenti liberi si conceda durante la giornata.

Il salto con la pandemia

Perfino un software estremamente diffuso e popolare come Office 365 di Microsoft è stato criticato per motivi simili, a causa del “punteggi di produttività” che permettevano ai superiori di tenere traccia dell’attività dei dipendenti. In seguito alle polemiche, Microsoft ha fatto però marcia indietro, anonimizzando i dati e impedendo quindi di utilizzarli a livello individuale.

L’utilizzo di strumenti di questo tipo non è affatto una novità: già nel 1999, un dipendente di Microsoft fece causa all’azienda (perdendola) per essersi introdotta a sua insaputa nella casella email; mentre attorno al 2008 si cominciò a discutere – spesso a livello accademico – dei più elaborati software di monitoraggio, in grado di tenere traccia dell’attività elettronica e delle comunicazioni dei lavoratori. Da allora, però, questi strumenti sono diventati enormemente più sofisticati e si sono soprattutto diffusi sempre di più. Impiegano algoritmi di machine learning per aggregare e analizzare i dati e quantificare la produttività dei dipendenti.

L’ultimo balzo in avanti è avvenuto, prevedibilmente, nel corso della pandemia, che a causa della diffusione dello smart working ha sottratto ai manager la possibilità di supervisionare l’attività dei dipendenti nelle tradizionali modalità da ufficio. Si calcola che, oggi, strumenti di questo tipo vengano impiegati in Italia dal 43 per cento delle pmi. In un sondaggio tenuto nel Regno Unito sempre nel corso della pandemia, si è stimato che il 15 per cento dei lavoratori abbia avuto esperienza con questo tipo di software. La Reuters riporta invece come, in seguito alla pandemia, siano raddoppiate le aziende statunitensi che utilizzano strumenti di monitoraggio, arrivate al 60 per cento.

Quali sono i rischi della diffusione di sistemi di questo tipo? «Gli algoritmi considerano chi stacca le mani dalla tastiera per cinque minuti come se non stesse lavorando», ha spiegato al Guardian Ursula Huws, docente all’università di Hertfordshire. «Purtroppo non è possibile misurare quando qualcuno sta pensando. Quale sarà l’effetto di questi algoritmi sull’innovazione, che ha bisogno di menti creative?». In poche parole, che cosa succede quando qualunque momento trascorso a riflettere invece che a digitare compulsivamente sulla tastiera viene scambiato dagli algoritmi per tempo che il lavoratore ha sprecato?

È una tendenza a cui si assiste sempre più frequentemente nella nostra società: le valutazioni qualitative e soggettive cedono il passo a quelle quantitative e oggettive, lasciando che a unire i puntini siano algoritmi di intelligenza artificiale la cui vera abilità – indipendentemente dall’ambito in cui sono impiegati – è la capacità di scovare correlazioni in un’immensa mole di dati. Come racconta il blog specializzato Fast.AI, «questo è un aspetto fondamentale da comprendere, perché ogni rischio che si corre quando si fa eccessivo affidamento sulle metriche è amplificato dall’intelligenza artificiale».

Burnout

È stato inoltre segnalato come l’utilizzo di questi sistemi aumenti il rischio di burnout per i lavoratori: secondo quanto si legge in un report del Parlamento Europeo le tecnologie di sorveglianza «riducono infatti l’autonomia e la privacy, conducendo a un’intensificazione eccessiva del lavoro e cancellando i confini tra il lavoro e la vita personale».

Sono problemi di cui c’è consapevolezza perfino nella nazione più permissiva nei confronti di questi software, ovvero gli Stati Uniti. Secondo un sondaggio condotto da Pew Research, il 39 per cento degli interpellati si oppone all’utilizzo degli algoritmi per «valutare la qualità del lavoro delle persone» (contro un 31 per cento di favorevoli); percentuale che sale al 51 per cento di oppositori (contro un 27 di favorevoli) nel caso in cui questi strumenti vengano usati per «registrare esattamente cosa si sta facendo sul computer» e al 56 per cento (contro un 20 di favorevoli) quando questi sistemi controllano anche «quando i lavoratori si trovano alla loro postazione».

Regole

Negli ultimi anni, qualche passo avanti nella protezione dei lavoratori dal monitoraggio digitale è stato comunque fatto. Nel nuovo regolamento sull’intelligenza artificiale, che il Parlamento Europeo si prepara a varare definitivamente, è per esempio previsto il divieto di utilizzare algoritmi per il riconoscimento delle emozioni, in alcuni casi utilizzati sul luogo di lavoro o in sede di colloquio per rilevare ansia, stress e non solo.

Anche il garante della Privacy italiano ha posto particolare attenzione su questi strumenti, segnalando la necessità che siano in linea con le disposizioni previste dal Gdpr (il regolamento europeo per la protezione dei dati) e ponendo particolare attenzione sui «sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati deputati a fornire indicazioni rilevanti ai fini dell’assunzione, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro», rilevando il rischio che, «specie se impiegati nel contesto lavorativo», questi strumenti «determinino un elevato livello di rischio per i diritti e le libertà degli interessati».

Per il momento, però, ogni proposta di regolamentazione, o messa al bando, degli algoritmi di monitoraggio è sempre stata più che altro legata a questioni di privacy. Iniziare a mettere in discussione anche la loro effettiva utilità, le modalità di lavoro che incentivano e gli effetti nocivi che hanno sull’ambiente professionale sarebbe un ulteriore passo avanti.

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