La palla corta di Jannik Sinner. Il chop di Matteo Berrettini. La seconda Coppa Davis consecutiva conquistata dall’Italia, terza della storia, è tutta in due colpi. Così distanti, se vogliamo, dal mood del tennis e dello sport contemporaneo: ma proprio per questo, oltre a essere meravigliosamente spettacolari, colpi decisivi.

Forse perché sono colpi che, come la forza di gravità in Interstellar, sono in grado di superare le barriere del tempo. Il dropshot eseguito da Sinner sul finire del primo set contro Griekspoor è il discendente diretto di quelli eseguiti dagli australiani Lew Hoad o Tony Roche chissà quante volte in carriera.

La manata dall’alto verso il basso che Matteo ha proposto un paio di volte sia contro Kokkinakis sabato sia contro Van Der Zandschulp è stato uno dei tocchi di bacchetta magica con cui Federer ha deliziato i suoi adepti. Dopo il trionfo azzurro di Malaga (siamo la quarta nazione di sempre dopo Stati Uniti, Australia, Repubblica Ceca e Russia a vincere nello stesso anno Davis e Fed Cup) è bello rifarsi al tennis che fu. A quell’alternanza di forza e delicatezza che ha fatto la fortuna di questo sport che come pochi altri dà un abito visibile e tecnico alle emozioni umane. E L’Italia è oggi la regina di questo universo di emozioni.

La rinascita della Coppa

Se la vittoria in Davis del ’76 aveva e avrà per sempre i crismi dell’evento perfino mitologico e quella dell’anno scorso la soddisfazione di un’attesa durata quasi mezzo secolo, il successo di Malaga deve essere salutato come una grazia che gli azzurri hanno concesso al tennis mondiale non solo a quello nostrano.

La Coppa Davis mezzo defunta dopo il massacro compiuto dalla dirigenza della federazione internazionale e dalla Kosmos di Gerard Piquè (addio alle partite tre set su cinque, addio ai match in sedi alternate nell’arco di tre giorni) con la scusa di riportare i top player in campo, obiettivo clamorosamente e prevedibilmente fallito (emblematico il caso di Zverev quest’anno, in vacanza alle Maldive mentre i compagni erano a Malaga) vive oggi una rinnovata freschezza.

L’Italia dominante solletica l’orgoglio nazionale degli altri Paesi che sono da noi al momento lontani anni luce (Francia, Gran Bretagna) e che mal sopportano di essere relegati a un ruolo secondario. Ed ecco che grazie a Sinner e soci rinasce quel gusto anche politico della Davis che ne ha fatto la fortuna. E c’è da scommetterci: l’anno prossimo Alcaraz arriverà alle Finals preparato e concentrato, Djokovic (ora sotto la supervisione di Andy Murray) non accetterà di vivere un’altra giornata di incubo come l’anno scorso; gli americani si presenteranno meno farfalloni e più organizzati. Grazie all’Italia è rinata la Davis: non è che l’ultimo successo di una stagione davvero indimenticabile.

Il paese-stato del tennis

E non è tutto. Perché qualcosa (anzi: molto) dovrà succedere. Non siamo di fronte a un’egemonia sportiva come altre. Dopo due Davis di fila si aprono prospettive per certi versi romanzesche, ma nuove.

L’idea che il tennis diventi in Italia il primo sport per numero di praticanti, passione e capacità attrattiva non è più così peregrina. C’è da registrare che già oggi può fregiarsi di essere uno sport altamente unificante, a parte coloro che vivono la cittadinanza monegasca di Sinner (e mica solo la sua) come un impedimento a considerare il rosso come un fenomeno del tutto italiano. Il che, in un momento storico, di polarizzazioni profonde non è poco.

Qualcosa del genere si è verificato in Germania ai tempi di Boris Becker e di Michael Stich ma non è la stessa cosa. Qui siamo di fronte al pensiero della creazione di un paese-stato del tennis che rappresenterebbe un unicum al mondo. Nella politica interna non sono pochi coloro i quali prevedono per l’attuale (in carica da 24 anni) presidente federale Angelo Binaghi un dicastero in un prossimo governo a guida Meloni. C’è anche chi lo vorrebbe alla guida della ITF, la Federazione Internazionale proprietaria della Coppa Davis: il che creerebbe un asse italico con l’Atp di Andrea Gaudenzi (che prima o poi si unificherà con la Wta) che farebbe del nostro paese la sede naturale di questo sport. Fantapolitica? Possibile.

Ma il “progetto” è supportato dalle imprese strettamente agonistiche: Sinner che già l’anno prossimo potrebbe puntare al Grande Slam, obiettivo fallito da tutti dopo Rod Laver nel ’69. Jasmine Paolini che centra un titolo Slam. Un italiano o un’italiana che vincono a Roma magari causando a cascata un’”occupazione” di suolo pubblico da parte del tennis capace di travalicare i confini del Foro Italico (tennis dentro l’Olimpico? Perché no). L’ingresso fra i top player di un’altra infornata di giovani con l’obiettivo che fra di loro si trovi un altro Sinner.

Su tutto, ovviamente, pesa l’attesa sentenza Wada sul caso Clostebol. Ma in questo momento qualcuno pensa davvero che se anche al nostro fosse riconosciuta la «non totale sorveglianza» su quello che facevano i suoi collaboratori e se quindi fosse squalificato per qualche mese, la condanna, invece di rivelarsi una limitazione, non si rivelerebbe invece nuovo carburante per la creazione del fantaprogetto di cui sopra?

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