Vedersi negati i pieni diritti in un paese in cui ci si identifica crea alienazione. Negli ultimi anni è aumentata la partecipazione, la voglia di farsi sentire e agire
Saltare giorni di scuola per fare la fila davanti alla questura e dare le proprie impronte per rinnovare il permesso di soggiorno. È un’esperienza che accomuna migliaia di bambine e bambini, ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia che, a causa di una legge vecchia, non hanno la cittadinanza.
«Provavo un leggero senso di vergogna quando dovevo perdere un giorno di scuola, mi imbarazzava dire che andavo in questura», racconta Annalisa Ramos Duarte, consigliera del Conngi, il coordinamento nazionale delle nuove generazioni italiane. «Non mi sentivo straniera», prosegue, «ma quando sei piccola interiorizzi i pregiudizi e non riesci a liberarti da questo senso di vergogna. Dovevo farlo tutti gli anni e aveva un impatto psicologico». Ramos Duarte è nata in Italia da genitori originari di Capo Verde e a 18 anni è riuscita a ottenere la cittadinanza.
Lo stesso accade quando la classe ha in programma una gita all’estero e, senza la cittadinanza, bisogna chiedere un visto e può capitare che non si riesca a ottenere in tempo. Le nuove generazioni con background migratorio sono quasi un milione, ma la legge sulla cittadinanza, gli ostacoli e gli stereotipi spesso negano loro l’identità.
Ramos Duarte spiega che non vedersi riconosciuta la cittadinanza del paese in cui si nasce, si cresce, dove si studia e si assorbe la cultura, «può portare a un senso di alienazione, allontana i giovani dalla cittadinanza attiva e dall’interesse nella politica». Significa nascere e crescere «in una condizione di diversità imposta, in una società in cui esistono cittadini di serie A e di serie B», dice Fioralba Duma, attivista di Italiani senza cittadinanza (Isc) fin dalla nascita dell’associazione nel 2016, quando era in corso un dibattito su una riforma della legge, poi naufragato.
Di fronte all’inerzia della politica, un gruppo di associazioni e partiti ha dato il via a un referendum abrogativo per riformare uno dei punti più ostici della legge, chiedendo di abbassare dai 10 a 5 anni la residenza necessaria per la cittadinanza per naturalizzazione, una concessione.
L’ostacolo della residenza
Il referendum «è un primo passo», dicono le organizzazioni, importante perché «parte dal basso», dalle nuove generazioni. Una riforma necessaria, per Ramos Duarte, perché l’Italia deve adattarsi ai tempi e alle normative europee e prendere coscienza della propria multiculturalità. Il requisito della residenza ininterrotta è problematico anche se si è nati in Italia.
«Sono nata e cresciuta qui da genitori marocchini», racconta Noura Ghazoui, presidente del Conngi, «ma ho vissuto in Marocco per 6 anni». Tornata in Italia, al compimento dei 18 anni ha scoperto che non poteva fare la domanda perché è venuta meno la continuità della residenza. In più, chi nasce in Italia e presenta tutti gli elementi richiesti, ha solo un anno di tempo per fare domanda, fino ai 19 anni.
«Questa notizia mi ha segnata», prosegue, «perché non volevo accettare che, nonostante il forte senso di appartenenza, l’Italia mi escludesse». Durante la scuola Ghazoui ha svolto un tirocinio in comune e, dopo la maturità, l’istituzione ha indetto un concorso «al quale chiaramente, senza la cittadinanza, non ho potuto partecipare», spiega.
Non avere la cittadinanza porta poi a «dubbi e rinunce», ricorda Duma. È possibile fare l’Erasmus ma «si ha paura delle interruzioni della residenza». Se salta la continuità, il conteggio riparte da zero. «Conosciamo diverse persone», continua l’attivista di Isc, «che per fare dottorati all’estero hanno perso il proprio permesso di soggiorno e la residenza continuativa, così le speranze di ottenere la cittadinanza».
Identità negata
L’identità negata parte dal linguaggio, soprattutto da quello mediatico che, riferendosi alle nuove generazioni, riproduce stereotipi. Una narrazione negativa che «ci travolge», dice Ghazoui, quando si precisa il paese di origine nel racconto di un crimine o di contesti di disagio. «Io non rappresento gli altri».
Da italiano senza cittadinanza poi «si è messi alla prova in continuazione», sottolinea poi Duma, «la propria identità è sempre un punto interrogativo». Ad esempio, per i 10 anni di residenza e per il periodo della domanda, per 15 anni almeno, si è chiamati ad assicurare un reddito minimo, in un paese in cui la disoccupazione giovanile, il lavoro nero e la precarietà raggiungono livelli molto alti. Standard che non vengono chiesti alla maggioranza delle persone. E infatti molti universitari sono costretti a lavorare durante gli studi per raggiungere il requisito del reddito.
Senza cittadinanza spesso non si può partecipare ai concorsi pubblici e l’iscrizione agli albi professionali è a rischio. Ne è un esempio la recente legge che ha istituito l’albo degli educatori e dei pedagogisti che, tra le condizioni, prevede quella di «essere cittadino italiano o di uno stato membro dell’Ue o di uno stato rispetto al quale vige in materia la condizione di reciprocità». Un «requisito discriminatorio», denunciano le associazioni.
Partecipazione
Se è vero che le nuove generazioni non si sentono abbastanza rappresentate e che non c’è una vera apertura da parte della politica, c’è chi lotta per riappropriarsi degli spazi e di questo senso di appartenenza. Negli ultimi anni è aumentata la partecipazione e la voglia di essere ascoltati, dice Ghazoui. Per Ramos Duarte spesso le istituzioni hanno comportamenti di facciata, per questo il Conngi, spiega, funziona da ponte tra le nuove generazioni e le istituzioni, e fa «un lavoro di rappresentanza».
Quando Ghazoui ha conosciuto il Conngi, prima di diventarne presidente, le si è aperto un mondo: «Ho capito di non essere sola. Molti ragazzi che non trovano uno spazio che li riconosca pensano di poter essere portatori di una sola cultura. Per me una non esclude l’altra, ho dentro di me due culture e ho scelto di vivere in Italia».
C’è poi un’esclusione maggiore delle altre, quella del voto. Ma questo per Duma «non significa non poter essere cittadini attivi. È importante non abbandonare i nostri spazi, riprenderceli e agire». Duma vede un miglioramento, come dimostra la rete degli amministratori locali con background migratorio. «Ma i consiglieri di origine straniera non potranno da soli salvare l’Italia, se non si vuole salvare da sola».
© Riproduzione riservata