Quella della famiglia Jiang è la storia di tante altre famiglie cinesi arrivate in Italia negli anni Ottanta che si sono date alla ristorazione, racconta del lavoro e del sacrificio, dell’importanza di mantenere vivo ciò che si è costruito e dargli un futuro
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
I luoghi diventano istituzioni sentimentali, a volte, in modo inconsapevole. È per il tempo che li abbiamo frequentati, forse, che ci convince sia così, per ogni occasione in cui recitiamo i loro menù sgualciti anche se li conosciamo memoria, solo per il gusto di sfogliarli. I quartieri attorno cambiano e così fanno le generazioni, eppure questi rifugi rimangono lì.
Sono sensazioni quasi mistiche: si va nei templi per cercare conforto, si torna in ristoranti come La Rosa per ritrovare una precisa forma di ristoro. In questa, sono i ravioli alla piastra sempre un po’ storti o la salsa piccante della casa che ti ammicca senza bruciare. Ma non è tanto per i piatti che, pure, ci divoriamo per festeggiare o per riprenderci. Il motivo per cui veniamo in questi luoghi è per un immoto che custodisce le vecchie anime della città, quella dei loro gestori e, ogni tanto, anche la nostra.
Chissà se ne erano consapevoli Meiqing e Lianzhou Jiang quando, nel 1988, aprirono La Rosa, in piena zona universitaria a Bologna. Chissà se si immaginavano di diventare uno di questi posti, o che sarebbero stati essere ancora lì, a fare il consueto slalom fra i tavoli sempre pieni, trentacinque anni dopo. Certo è che arrivarono dallo Zhejiang, la regione meridionale della Cina, per mettere nuove radici e realizzare, nel loro modo discreto, una piccola storia di famiglia: «Sono arrivato il 3 aprile 1981 a Bologna», racconta Meiqing, con il suo sorriso e la classica camicia bianca a mezze maniche, «mentre mia moglie nell’ottobre del 1983. Ho iniziato questo lavoro solo in Italia, come cameriere nel ristorante di mio zio, che era già qui e in cui siamo rimasti qualche anno. Lì ho imparato il mestiere e i piatti come il pollo alle mandorle e il riso alla cantonese, lì ho conosciuto tante persone che, poi, hanno cominciato a frequentare il nostro ristorante. Hanno portato i figli e poi i nipoti, sono ritornati dall’estero e sono ritornati qui anche solo per un saluto», conclude sorridendo.
Da allora non è cambiato quasi nulla. La Rosa è ancora sempre aperta, anche nei weekend, non sono cambiati i coniugi Jiang, sempre lì alla porta per farti sedere. Anche in cucina è rimasta quella peculiare traduzione dei piatti cinesi reinventati per un pubblico occidentale. Un mondo che racconta, però, anche dell’adattamento di queste famiglie e di quale fosse – ed è – il suo significato. È quel lungo vagare delle diaspore, delle comunità sparse che tracciano nuove strade a migliaia di chilometri di distanza, che ci danno il senso di memoria, il prima e il dopo, di un contatto che riceviamo da una terra o da un ingrediente.
Per la famiglia, con la famiglia
«Aprire il ristorante non è stato facile, e facile non è stato gestirlo: solo per trovare gli ingredienti bisognava andare dall’altra parte della città, e lo si faceva tra un servizio e l’altro», prosegue Meiqing, «Eravamo io, un lavapiatti e un cuoco, facevamo anche 20 ore di lavoro al giorno, uscivo alle otto per accompagnare i bambini all’asilo e poi ritornavo qui a lavorare fino a mezzanotte. Siamo stati fortunati, però, perché già dai primi giorni era sempre pieno di studenti e di famiglie, e la paura di perdere tutti gli sforzi e quello che volevamo costruire è andata via via allontanandosi».
Oltre il sacrificio, è la soddisfazione che segna i volti di Meiqing e Lianzhou Jiang, quella di aver creato un luogo di ritrovo e di rinascita: «Finché staremo bene, anche se sono passati 35 anni, credo che saremo sempre qui a lavorare», conclude Meiqing.
«In Cina c’è questo concetto di equilibrio», lo interrompe il figlio Matteo, «Lo Yin e lo Yang no? Ecco i miei genitori hanno trovato nel ristorante il loro equilibrio perfetto e, per questo, non si può spostare niente, come se ogni minima modifica potesse alterare la loro magia, è un senso di responsabilità vero, perché non avremo solo un locale da gestire, ma anche tutto quello che hanno costruito intorno».
Il ristorante è la famiglia, entra nelle tradizioni e nella vita di tutti i giorni. È proprio sopra ai locali di Via Mentana, che i Jiang vivono e in cui crescono nei primi anni i tre figli Stefano, Matteo e Maria che, a loro volta, sono diventati ristoratori di progetti indipendenti.
«Non pensavamo avremmo lavorato nella ristorazione anche noi, magari nostro padre ci ha sempre indirizzato lì, ma tutti e tre volevamo provare qualcosa di diverso», racconta Matteo, «Il sacrificio e la fatica che richiede questo lavoro li abbiamo vissuti crescendo dentro al ristorante. Abbiamo trascorso lì i weekend e le festività come il Natale e, anche se c’erano pochi clienti, tenevamo aperto e facevamo una grande tavolata con i parenti. La Rosa fa parte della nostra storia e, forse, è anche perché è un mondo che conoscevamo che ci siamo ritrovati qui, come accaduto con nostro fratello che, però, ha cominciato da giovanissimo con il suo primo ristorante di cucina fusion».
Creare ponti
Nel 2023 Maria e Matteo hanno aperto Baoneki, a due passi dal ristorante La Rosa. Qui decidono di proporre una cucina proveniente da tutto il continente asiatico sotto forma di xiaochi, piccoli piatti d’assaggio serviti insieme ai cocktail della casa: «Diciamo che, il fatto di essere cresciuti in un ristorante, ci ha sempre portati, anche durante i viaggi, a ricercare sempre qualcosa di orientale», spiega Maria, «Prima di aprire abbiamo girato un po’ di città, studiato i locali e le proposte che c’erano a Parigi, Berlino, Londra.. Non volevamo un ristorante cinese classico, anche perché in Asia questo senso di mescolanza è dappertutto, dentro le ricette e nei ristoranti, in cui è facile trovare questi assaggi accompagnati con il tè, fino ai Karaoke Bar e le discoteche».
In mezzo, però, appaiono piccole citazioni alla casa madre, involtini vietnamiti e ravioli, oltre a un esteso senso di ospitalità che si trasmette attraverso il cibo e il suo farsi mezzo di accoglienza: «Nostro padre è sempre stato una persona cordiale con tutti», prosegue Matteo, «Con noi è stato magari un po’ più rigido, come tipico di quella generazione cresciuta nella miseria e poi arrivata in Italia, ma ha sempre trovato un modo per comunicare il suo affetto attraverso il cibo. Questo tipo di condivisione, che è prendersi cura l’uno dell’altro, è quello che volevamo portare nel nostro locale. Volevamo aprirci a qualcosa di diverso tenendo sempre a mente certi insegnamenti».
«Abbiamo questa responsabilità di tenere viva la tradizione e un posto come La Rosa, anche per i nostri figli», aggiunge Maria, «Siamo nati e cresciuti in Italia ma le nostre radici sono cinesi, le nostre tradizioni e quello con cui siamo cresciuti. Vogliamo fare da ponte tra queste due generazioni così lontane e così diverse. Questo significa farlo a nostro modo qui, da Baoneki, mantenendo però intatta la storia dei nostri genitori quando andranno in pensione. Il legame verso quel ristorante sarà sempre sentimentale, per noi che ci siamo cresciuti dentro, e per le altre persone che lo frequentano da una vita».
© Riproduzione riservata