Da Sonia, l'antico ristorante cinese della capitale, ai locali di Tor Pignattara – roccaforte della comunità bengalese – Roma è uno degli epicentri della cucina etnica in Italia
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Non si è mai visto un cane in un ristorante bengalese. Il migliore amico dell’uomo occidentale non è il benvenuto: il motivo non è igienico, e neppure ben specificato dai membri della stessa comunità che si scansano, indietreggiano e addirittura urlano quando vedono uno scodinzolio.
Dicono sia per via del randagismo in Bangladesh: «Vedere un cane che vaga per i vicoli, lì, equivale a beccare un topo di fogna che ti taglia la strada, qui». I locali dei ristoranti nei quartieri di Roma est sono dimessi, senza pretese. Tavoli in legno, tovaglie di carta come nelle trattorie italiane raccontate nei film del dopo guerra. Alle pareti quadri kitsch di Roma, di quelli con bassorilievi cangianti; celebrazioni islamiche, un potpourri di sacro e profano. Nell’angolo più in vista, in alto, sorretta da due staffe, una televisione al plasma da settanta pollici tenuta ad altissimo volume passa in rassegna programmi in lingua.
Nessuno la segue, l’importante è che ci sia: come fosse lì a segnalare lo status economico del ristoratore. Il menu è ricco: samosa (i triangoli di pasta fillo farciti di carne speziata che dall’India - fiore all’occhiello delle colonie inglesi di sua Maestà britannica - si sono propagati per gran parte dell’Africa orientale tanto da essere piatto tipico in Kenya o Uganda), involtini, riso pilaf, carne di pollo, di manzo, agnello marinato nello yogurt; lenticchie, riso speziato, naan - il pane simile a una morbida piadina - semplice, ma anche aromatizzato con cipolle o aglio; zuppe di lenticchie e uova; moghlai, tandoori e biryani, la Santa trinità della tradizione etnica. Le spezie sono potenti, la nota piccante ancor più. Bevande concesse: acqua, coca cola, aranciata e tè. Niente alcool, neppure per i clienti italiani.
La via degli ingredienti
A Torpignattara – che suona così romanesco nelle origini romano-antiche –, roccaforte della comunità bengalese (solo qui l’ultimo censimento ne conta più di diecimila, oltre trentamila in tutta la Capitale), intere vie sono dedicate alle merci alimentari che riforniscono case private e ristoranti. Le strade riecheggiano delle voci squillanti e quasi stridule così come i colori di verdure e spezie riempiono gli occhi degli abitanti originari del quartiere sorto con l’espansione fascista del quadrante orientale della Capitale del Regno.
I ristoranti servono i clienti ormai da decenni; quando il proprietario decide di lasciare, le serrande non si abbassano mai davvero: c’è un passaggio di testimone dal vecchio al nuovo gestore. La tradizione non può esaurirsi, ma solo rinnovarsi. La catena di approvvigionamento è semplice: carni, riso, bevande arrivano interamente dalle botteghe di via della Marranella. Quel viale che prima era il rigagnolo di un fiumiciattolo - la Marrana - oggi tombato, ora è cosparso di macellerie, fruttivendoli con bandiere bengalesi.
È l’alba quando lo scarico della merce si trasforma in un programma di intrattenimento: si incrociano i macellai con ancora i grembiuli macchiati di sangue vivo che portano a spalle capre e agnelli già macellati; i fruttivendoli posano cassette di ortaggi e frutti, spesso appassiti per via delle temperature, a terra, appena fuori dal negozio. Dai camion si sente il richiamo: l’autista è sceso e ha appena aperto il container. Parte la catena di montaggio: di mano in mano passano sacchi, scatoloni, collane di aglio e cipolla.
Forme e odori
Spesso quello che propongono ha forme e odori che non trovano rispondenza nella cucina italiana. Come la Korolla: raccontano sia curativa. C’è il Lau, la zucca bottiglia; il “dito delle signore”: simile a una zucchina, ma con la parte terminale affusolata. La carne è halal: gli animali possono essere abbattuti senza essere storditi, e l'abbattimento deve avvenire in un macello.
La gentrificazione del quartiere porta sempre più avventori esterni: gomito a gomito con i locali i foresti assaggiano le pietanze della cucina assai simile a quella indiana solo con un tocco di maggiore semplicità e rusticità. Se un esercizio ha successo subito uno simile apre accanto, con l’effetto-copia che ripete lo schema in molte delle strade divenute ormai punto di riferimento “bangla”.
«Da noi si mangia praticamente lo stesso menu di un ristorante indiano, ma costa molto meno». Lo dice, facendosi una risata, Phaim Bhuiyan, regista. Il suo film del 2019, Bangla, commedia etnica, racconta la vita di un ragazzo bengalese di seconda generazione per i quartieri di Roma. I ristoranti rimangono quasi esclusivamente a conduzione maschile: le donne a casa a prendersi cura delle attività domestiche, e dei figli. Non c’è spazio per l’empowerment femminile. Un piccolo ristorante, in una traversa defilata, è gestito da una donna. Bengalese, imprenditrice, cuoca.
Spezie nei sacchi come nei mercati d’oriente, verdure che non si trovano nei banchi dei mercati rionali, i tagli delle carni irriconoscibili: parte della piccola Dacca di Torpigna, passa per l’enclave mercantile orientale di Piazza Vittorio Emanuele, nel quartiere Esquilino. Imborghesita ma non troppo, la zona «non è manco più di frontiera, è diventata tutta precisa», spiega Bhuiyan. E in effetti è qui che attraversa la strada una parte degli intellò romani, artisti, scrittori, gente del cinema. È qui che il palato che ha voglia di cibo cinese viene soddisfatto. Alcuni dei ristoranti sulla piazza e nei dintorni sono di quelli ancora non “occidentalizzati”: non si vede riso alla cantonese sul menu; vietato dire “nuvole di drago”. I proprietari sono per la maggior parte della zona di Hangzhou: prediligono zampe di gallina fritte, maiale Dongpo, spiedini di uova di quaglia, al pollo alle mandorle. Grandi insegne con idiomi in lingua cinese, colori sgargianti per i menu appoggiati sui leggii, all’esterno. Vetrine e suppellettili spesso al limite di condizioni igieniche ideali, sfrigolio di piatti. La spesa viene fatta al mattino, al mercato. Il pesce viene acquistato surgelato, i gamberi soprattutto. Quasi tutto il comparto ittico ha provenienza estera. La farina per bao e ravioli è spesso italiana.
All’inizio fu Sonia
Da Sonia, la signora col caschetto corvino, la cucina è quella immaginata dall’occidente: la sua trattoria serve involtini primavera, spaghetti di riso, pollo al curry, e l’immancabile biscotto della fortuna. Capisaldi rassicuranti che radunano migliaia di clienti. «Gli affari vanno bene perché abbiamo un nome e una reputazione solidi, si lavora tantissimo, ma saremo costretti ad aumentare i prezzi» spiegano. La concorrenza li sta comunque mettendo a dura prova.
Nel locale è una continua sfilata di personalità più o meno in vista: attori, politici, più o meno conosciuti, giornalisti, critici. Poco male se il ristorante affaccia quasi sulla stazione Termini, la posizione non crea svantaggio. Quelle lanterne rosse appese fuori dal locale sono il canto delle sirene per ogni romano che abbia un po’ di dimestichezza col quartiere.
Per molti si lavora sulla quantità, più che sulla qualità. Una formula che serve bene per spiegare la comparsa di attività che propongono cucina cinese, giapponese insieme; i più impavidi si cimentano anche con quella italiana. «Aprire oggi un ristorante asiatico non è facile, l’offerta è troppa. Quindi si ricorre a formule "all in” per accaparrarsi più clientela possibile» dice uno dei ristoratori.
Lo stesso vale per coloro che decidono di ricorrere all’ “all you can eat”, specie se si parla di sushi. «Se so che con otto euro, di media, posso comprare un chilo di salmone, è più facile prepararne in quantità. Il punto è come quel pesce verrà trattato. Sarà abbattuto? Per quanto verrà conservato? E se oggi non viene mangiato?»
Ha preso una strada più impervia, invece, uno dei ristoranti asiatici in pieno centro. Aperto nella zona dei culti orientali da marito e moglie, lui ex dipendente Rai e lei di Shanghai, appassionata di cucina, Green T da vent’anni prepara piatti ricercatissimi della tradizione culinaria imperiale. In cucina tre chef, ognuno con un ambito di competenza. Farine, carni, cucine regionali. In principio lavorava un solo cuoco, arrivato direttamente da Hong Kong.
I rifornimenti per le materie prime vengono fatti la mattina anche dal proprietario. O di notte. Le carni bianche, come oche e anatre, sono di importazione: arrivano dalla Francia. Il desiderio di un ristorante così nasce dalla necessità di «offrire qualcosa di diverso» dai piatti per lo più standardizzati dei cinesi d’Italia. E per questo i prezzi sono tutt’altro che a buon mercato, ma per i palati degli avventori la sorpresa ripaga la spesa. Perché anche solo il sapore di un semplice chicco di riso in Asia non sarà mai banale.
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