- Il presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa, fugge in un luogo ignoto prima di essere catturato dalla folla che ha invaso il palazzo presidenziale. Fa sapere di essere pronto a rassegnare le dimissioni.
- L’inflazione ha fatto aumentare i prezzi del cibo e dei generi di prima necessità, le scorte dei farmaci sono ridotte all’osso e il carburante è introvabile. Inoltre, la pandemia ha privato il paese della sua principale risorsa: il turismo.
- Serve un governo di unità nazionale contro lo strapotere della famiglia Rajapaksa e per la prosperità del paese. Gli esponenti politici dello Sri Lanka devono raccogliere il grido d’aiuto dei manifestanti.
L’effetto simbolico che le immagini provenienti dallo Sri Lanka ci stanno consegnando in queste ore è a dir poco dirompente.
Non semplicemente perché una enorme folla si è diretta verso la residenza presidenziale – occupata, fino a qualche ora prima, dal principale indiziato del disastro economico del paese – ma soprattutto a causa del fatto che, quando i poveri cingalesi sono giunti a destinazione hanno voluto immediatamente provare l’ebbrezza della ricchezza e del potere, appropriandosi della piscina, delle ben fornite cucine e trascorrendo il tempo a guardare le gare di cricket sugli enormi schermi disseminati nella dimora dell’ormai deposto presidente.
È stato in quel momento di “trapasso” che, probabilmente, l’ex presidente, Gotabaya Rajapaksa, ha capito, dopo aver rifiutato seccamente negli ultimi tempi di dimettersi, di aver ormai perso tutto.
La svolta, del resto, era diventata prevedibile allorché sia i soldati sia i monaci buddhisti – che avevano precedentemente concesso il loro appoggio a Rajapaksa – si erano, per la prima volta dall’inizio delle manifestazioni nella capitale Colombo a marzo, uniti ai protestanti.
Presidente in allarme
Che l’aria fosse diventata pesante lo si era percepito già nel corso del fine settimana scorso, quando si erano susseguiti molteplici avvisi relativi alla volontà del presidente di fuggire dal paese; ciò, peraltro, era per certi versi comprensibile, dato che l’indignazione della popolazione era diventata incontrollabile.
In effetti, Rajapaksa si è dileguato prima di essere catturato dalla folla, per rifugiarsi in un luogo ignoto, forse una base militare, dal quale ha fatto sapere di essere pronto a rassegnare le proprie dimissioni mercoledì prossimo; un traguardo considerato fin troppo lontano dai cittadini del suo paese.
La voce secondo cui il presidente abbia dato disposizioni relative all’immediata distribuzione di gas da cucina implicherebbe la conservazione di alcune quote di potere, ma ciò non ha trovato conferme.
Oltre a impossessarsi della dimora presidenziale, gli insorgenti hanno appiccato il fuoco alla residenza privata del primo ministro, Ranil Wickremesinghe, il quale, dopo essere riuscito a sfuggire all’agguato, ha dichiarato di voler attendere l’insediamento di un nuovo governo prima di rimettere il proprio mandato.
Gli insorgenti hanno comunque fatto sapere che non intendono lasciare gli edifici di cui si sono impossessati in queste ore fino a quando il presidente e il primo ministro non si saranno formalmente dimessi.
L’ascesa della famiglia Rajapaksa
La famiglia Rajapaksa ha dominato lo scenario politico dello Sri Lanka per gran parte degli ultimi due decenni e, negli ultimi anni, ha progressivamente amministrato la cosa pubblica come un affare di famiglia.
Mahinda Rajapaksa, originariamente primo ministro e successivamente presidente per due mandati, dal 2005 al 2015, è stato il demiurgo dell’ascesa della dinastia al potere. Allontanatisi brevemente dalle stanze del potere nel 2015, dopo la sconfitta subita in quelle elezioni, i Rajapaksa hanno fatto il proprio ritorno sul proscenio politico nel 2019, presentando Gotabaya in qualità di candidato alla presidenza.
Una volta conseguito il successo, quest’ultimo ha richiamato il fratello maggiore – il già noto Mahinda – in seno al governo, affidandogli l’incarico di primo ministro e “infiltrando” vari altri parenti nei ruoli chiave dell’amministrazione dello stato.
Non appena le sembianze di una profonda crisi economica hanno cominciato a palesarsi, l’estate dell’anno scorso, il presidente ha nominato il fratello Basil Rajapaksa a ministro delle Finanze.
Solo lo scorso aprile, a causa delle proteste che andavano intensificandosi, il presidente ha costretto i membri della sua famiglia a lasciare le proprie cariche governative.
Import ed export
Alla fine della guerra civile, nel 2009, lo Sri Lanka ha deciso di concentrarsi maggiormente sulla fornitura di beni al mercato interno, invece di posizionarsi su quelli esteri: di conseguenza, i profitti derivanti dalle esportazioni sono rimasti bassissimi, mentre il “conto” relativo alle importazioni ha continuato a crescere.
Annualmente lo Sri Lanka importa 3 miliardi di dollari in più di quanto esporti e, per questa ragione, le riserve di valuta estera si sono totalmente prosciugate.
La profonda crisi finanziaria si è trascinata fino ai giorni nostri, aggravata dagli insostenibili debiti contratti con paesi come la Cina, al fine di realizzare dei progetti infrastrutturali, come il porto di Hambantota, necessari solo ed esclusivamente ai cinesi stessi.
Nel 2019, peraltro, il presidente Rajapaksa ha deciso di introdurre dei significativi tagli alle tasse, che hanno ridotto il gettito fiscale di circa un miliardo e mezzo di dollari all’anno.
Quando l’assenza di valuta estera si è trasformata in un problema di grave entità, all’inizio del 2021, il governo ha cercato di porre rimedio vietando l’importazione di fertilizzanti chimici, suggerendo ai contadini di fare uso di fertilizzanti organici.
Ciò ha condotto al crollo del settore agricolo e ha comportato la necessaria integrazione delle scorte alimentari interna con quelle provenienti dall’estero, esacerbando ulteriormente la carenza di valuta estera.
Prezzi alle stelle
Allo stato attuale, l’inflazione dilagante ha fatto schizzare alle stelle i prezzi del cibo e dei generi di prima necessità, le scorte dei farmaci sono ridotte all’osso e il carburante è oramai praticamente introvabile, tanto che è stato deciso il blocco della vendita al dettaglio (il primo paese a introdurre tale drastica misura a partire dagli anni Settanta).
È ovvio come anche la pandemia abbia le sue responsabilità, avendo privato il paese della sua principale risorsa, vale a dire il turismo e quindi valuta estera necessaria a importare proprio carburante e medicinali.
A completare un quadro a tinte fosche, tuttavia, si sono aggiunte l’incapacità gestionale del governo in carica e la guerra in Ucraina, che ha gravemente minato le forniture a livello globale.
Wickremesinghe aveva ricevuto l’incarico di primo ministro dalle mani del presidente lo scorso maggio, nell’estremo sforzo di dare una qualche soluzione alla grave situazione che il paese stava attraversando e per favorire una ripartenza dell’economia.
Lo Sri Lanka ha contratto un debito estero pari a circa 51 miliardi di dollari e si trova nelle condizioni di dover ripagare una quota annuale pari a circa 7 miliardi di dollari all’anno per ripianare questo debito.
Il nuovo premier aveva iniziato un’interlocuzione con il Fondo monetario internazionale relativo a un possibile aiuto finanziario di circa 3 miliardi di dollari e con il Programma Alimentare Mondiale per prevenire una (largamente attesa) crisi alimentare.
Il governo avrebbe dovuto fornire entro agosto al Fmi – che l’avrebbe vagliato attentamente prima di assumere una decisione – un rapporto sulla sostenibilità del debito. Il suggerimento del Fmi è stato comunque quello di aumentare i tassi di interesse e la tassazione generale.
Intervento immediato
È ovvio, tuttavia, che anche la confusione politica seguita alla sollevazione popolare non contribuirà certamente a rassicurare coloro che potrebbero fornire l’assistenza internazionale necessaria perché il paese si rimetta in piedi.
L’unica possibilità, quindi, è quella di fare affidamento su un governo di unità nazionale che metta a disposizione del paese gli economisti più capaci per sottrarre lo Sri Lanka al baratro causato da questa emergenza economica di cui il governo è direttamente responsabile.
L’intervento, peraltro, deve essere immediato, prima che si origini un vuoto di potere all’interno del quale potrebbero prendere posizione i gruppi estremisti, in grado di sfruttare a proprio vantaggio l’instabilità di questo frangente.
Del resto, solo tre anni fa 270 persone rimasero uccise negli attentati, rivendicati dai seguaci dello Stato islamico, ai danni di chiese e hotel di lusso.
La speranza di un cambio di rotta origina dal fatto che finalmente il paese sembra unito non solo contro lo strapotere dei Rajapaksa ma, soprattutto, al fine di rintracciare una via che conceda pace e prosperità al paese.
Ciò che rimane da vedere è se, e in quale misura, gli esponenti politici dello Sri Lanka e la comunità internazionale siano in grado di raccogliere questo grido d’aiuto proveniente dalla pancia del paese.
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