Sono anni che la normativa in materia di reati di genere si arricchisce di misure repressive e sanzioni. Ciò nonostante, la violenza contro le donne non si attenua. Eppure, ancora una volta, pare che la risposta legislativa sia per il governo la soluzione migliore
La vigilia della giornata internazionale della donna rappresenta senza dubbio la cornice più adeguata entro la quale inserire un nuovo disegno di legge che si occupa di donne, specificamente di quelle che arrivano a morire per il solo fatto di essere donne. Proprio ieri il consiglio dei ministri ha varato un ddl che introduce nell’ordinamento il reato di femminicidio. Il governo non è nuovo alla scelta di date significative per annunciare certi provvedimenti. Già in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, il 25 novembre scorso, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, Eugenia Roccella, aveva comunicato l’inizio dei lavori per la redazione di un testo unico di raccolta delle disposizioni sul contrasto a tale tipo di violenza, com’è stato ricordato nella conferenza stampa di presentazione del nuovo ddl.
Dal punto di vista simbolico, il messaggio che si vuole dare con la proposta di legge varata alla vigilia dell’8 marzo è senz’altro molto forte. Dal punto di vista concreto, invece, sorgono dubbi circa il fatto che essa potrà costituire un reale deterrente all’uccisione di donne.
Il nuovo ddl
Con la proposta di legge, il reato di omicidio di una donna, quando sia basato su un’esigenza di prevaricazione e annientamento della stessa in quanto tale, viene “tipizzato”, acquista cioè una propria dignità e autonomia nell’ambito del codice penale.
«Chiunque cagiona la morte di una donna» – recita l’articolo 1 del ddl – «quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo». Al di fuori di questi casi continua ad applicarsi l'articolo 575 del codice penale, che prevede una pena non inferiore a 21 anni.
Gli stessi elementi che connotano il femminicidio – discriminazione, odio, volontà di repressione di diritti o libertà – sono previsti dalla proposta di legge come aggravanti in caso di altri reati contro le donne: dai maltrattamenti alle lesioni, dalle minacce al revenge porn.
Il ddl dispone, inoltre, misure ulteriori: un potenziamento delle comunicazioni informative alle parti offese circa i loro diritti; una specifica attenzione alla formazione degli operatori, sotto il profilo della «promozione di modalità di interazione con le persone offese idonee a prevenire la vittimizzazione secondaria»; l’obbligo di audizione da parte del pubblico ministero delle vittime di violenza di genere, qualora esse lo richiedano, e comunque in una serie di altre circostanze; l’ampliamento delle ipotesi in cui può ricorrersi agli arresti domiciliari o alla custodia cautelare in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza.
La cultura non si cambia per legge
Sono anni che la normativa in materia di reati di genere si va arricchendo di misure repressive e sanzioni. Ciò nonostante, la violenza contro le donne, in ogni sua forma, continua a restare un fenomeno estremamente grave e diffuso, con l’aumento di una serie di atti criminosi. Eppure, ancora una volta, pare che la risposta legislativa sia per il governo la soluzione migliore.
Come si diceva, se è un messaggio suggestivo far sì che un reato odioso come il femminicidio acquisti una propria dimensione codicistica alla vigilia della giornata dedicata alle donne, si dubita tuttavia che la relativa proposta di legge, se approvata, possa avere una reale efficacia deterrente. Le dinamiche sottese alla commissione di particolari illeciti nei confronti delle donne dimostrano che non sono di certo valutazioni razionali, quali tecnicismi giuridici sulla configurazione autonoma del reato o sul calcolo delle relative pene, a dissuadere dal commetterli.
A questo fine, serve lavorare sulla cultura della parità di genere e del rispetto. E la cultura non si cambia per legge, come abbiamo scritto molte volte. Una legge che preveda una nuova fattispecie di reato non può di certo supplire, ad esempio, alla mancanza in via continuativa di campagne di sensibilizzazione o di programmi educativi in grado di formare le coscienze circa l’equilibrio nelle relazioni.
Parimenti, se c’è carenza di risorse destinate alla prevenzione della violenza sulle donne o di personale che dia seguito alle loro denunce, cogliendo i relativi segnali di pericolo, la previsione sulla carta di certe misure non ne consente la concreta attuazione.
Nella scenografia allestita dal governo in occasione dell’8 marzo tutta questa parte è mancata. E forse non è un caso.
© Riproduzione riservata