Un mese dopo la tragica morte di Moussa Diarra, colpito da un colpo di arma da fuoco sparato da un agente della Polizia nella stazione di Verona Porta Nuova, su quanto accaduto ci sono sempre meno luci e più ombre. Il 31 ottobre, infatti, una rete locale, velocemente ripresa da altri media e testate nazionali, ha diffuso la notizia che i video delle telecamere di sorveglianza – inaccessibili perché sotto segreto istruttorio – avrebbero ritratto Moussa Diarra intento ad aggredire i poliziotti a distanza ravvicinata.

Per questa ragione, il 12 novembre Paola Malavolta e Francesca Campostrini, avvocate di Djemagan Diarra, fratello di Moussa, hanno chiesto di poter visionare i contenuti delle telecamere, dato che da giorni la stampa dava per assodata questa ricostruzione dei fatti. Il giorno successivo, il procuratore di Verona Raffaele Tito, dichiara che la telecamera centrale è stata oggetto di un malfunzionamento.

Al contempo, le telecamere circostanti, più lontane, avrebbero registrato l’episodio in maniera approssimativa: i filmati sarebbero stati mandati a Padova in un tentativo di migliorarne la definizione. Le immagini di cui parlavano i media prima dell’intervento del procuratore non erano state visionate dai giornalisti, bensì riferite da (almeno) una fonte ritenuta affidabile dagli stessi. La stampa, i media sono un oggetto politico in sé, e possono divenire facilmente uno strumento di offesa. Nel caso di Diarra così è stato.

La narrazione della “colpevolezza certa”, basata sui filmati delle telecamere, è stata decisiva a livello di opinione pubblica, ed è divenuta una fonte di legittimazione dei discorsi d’odio della politica. Non a caso, appena uscita la notizia delle supposte riprese incriminanti, Matteo Salvini, che si era già espresso in merito alla morte del ventiseienne, ha ribadito: “Onore al poliziotto”.

Sin dalle prime ricostruzioni infatti Moussa è stato dipinto come un soggetto violento e minaccioso, in preda a una furia cieca, capace di mettere in fuga diversi poliziotti. È stato insinuato – e subito smentito – che potesse essere un terrorista. Che fosse intento in attività criminali. Che stesse trasportando della droga. Tutte informazioni che spariranno in breve tempo dal discorso, ma che lasceranno un segno. Al contrario, l’agente che ha sparato è stato descritto come di grande esperienza e rigore morale. La devianza di Moussa è costruita anche attraverso l’esaltazione delle virtù civiche attribuite alla controparte.

Questo è evidente dall’attenzione e dal linguaggio utilizzati per parlare del «disperato tentativo di rianimazione» a seguito del colpo inferto, o del modo in cui è stato ripreso il comunicato della procura, in cui si parla della «grande lealtà d’animo» e del «forte senso istituzionale» dell’agente. Pochi giorni dopo la morte di Moussa, a Cittadella, in provincia di Padova, un uomo italiano bianco di 34 anni, armato di coltello, ha fatto irruzione in ospedale ferendo un carabiniere e un dottore, e aggredendo altri nel personale medico.

L’uomo è stato contenuto attraverso l’uso del taser, senza riportare danni permanenti. La vicenda di Cittadella tuttavia è stata raccontata in modo molto diverso. Il malessere di natura psichiatrica dell’uomo è stato posto al centro della narrazione, pur veicolato attraverso termini quali «esagitato», e la sua azione descritta come uno «stato di agitazione».

Nuovamente vediamo media e politica utilizzare discorsi, archivi e vocabolari diversi nella rappresentazione di soggetti immigrati e razzializzati rispetto a quanto non avvenga con persone bianche di origine italiana. Ed è questo riscontro fondamentale del linguaggio politico e dei contenuti mediatici che fa sì che oggi il razzismo in Italia sia un fatto sistemico e, soprattutto, istituzionale.

Martedì 19 si è tenuta una nuova conferenza stampa, a cui hanno partecipato i famigliari di Diarra e il Comitato costituitosi per chiedere “verità e giustizia” sulla morte del giovane. È stata annunciata anche un’interrogazione parlamentare in merito al caso, portata avanti dalla senatrice Ilaria Cucchi di Sinistra italiana. Nella stessa serata, sempre nella stazione di Verona Porta Nuova, è stato chiamato un momento di ricordo e responsabilità, perché l’assenza delle registrazioni della telecamera rende essenziale la collaborazione dei testimoni oculari.

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