La minaccia più seria al record terribile l’ha portata Shericka Jackson, nata a St Anne, Giamaica, quasi sei anni dopo le cronache marziane di quella buonanima di Florence Griffith, maritata Joyner, FloJo, al donna bionica scomparsa a meno di 39 anni, dieci anni dopo l’estate delle meraviglie cronometriche e dei trionfi coreani.

Sul 10.49 restano i sospetti sulla misurazione di un vento stranamente inesistente; sul 21.34 di Seul nessun dubbio: FloJo ebbe quello giusto alle spalle, 1,3,, sia in semifinale, 21.56, sia in finale, 21.34. Cronometraggio manuale, 21.1: quanti uomini firmerebbero per un tempo del genere. Qualcuno si è spinto a dire che delle prestazioni di quella collezione estate autunno di trentacinque anni or sono, sia proprio il 21.34 la gemma della corona.

Shericka ora è a ridosso, sempre più a sempre più a ridosso. L’anno scorso, a Eugene, 21.45 e ora, per il titolo bis, 21.41, sette centesimi, senza una bava di vento a spingerla, solo l’afa spessa di Budapest. Le stesse condizioni concesse dalle onde del destino a FloJo avrebbero portato Shericka a 21.30 o giù di lì.  «Onestamente, non corro mai pensando al record del mondo ma a questo punto mi sto convincendo che verrà».

La giamaicana ha vissuto una metamorfosi simile a quella imboccata da Fred Kerley: nata quattrocentista (tre volte su podio olimpico nell’individuale e in staffetta) si è trasformata in velocista pura in continuo progresso (quest’anno 10.65) e in compagna d’avventura dell’eterna Shelly Ann Fraser che su questi palcoscenici recita dal 2007, un lungo corridoio nel tempo che alla Giamaica ha dato dieci anni fa la doppietta mondiale di Shelly Ann e la doppia doppietta olimpica di Elaine Thompson, dal viso di maga del Caribe. Shericka, seconda nei 100, è una quasi doppiettista.

In questo lungo momento storico, placcato Bolt, non è stato facile per gli Stati Uniti contrastare la forza d’urto giamaicana e le trafitture inferte da un italiano (Marcell Jacobs) e dal canadese Andre de Grasse.

La risposta Usa

La risposta è venuta con Noah Lyles, il primo a centrare 100 e 200 a otto anni di distanza dalla quarta accoppiata di Bolt. Noah è di Gainesville, Florida, e ha un passato di grande miseria: la madre, abbandonata dal marito, tirava su Noah e Josephus (veloce anche lui, sotto i 20.0) vendendo cosmetici. Abitavano in un sottoscala, non potevano permettersi nulla. Il legame con mamma è rimasto solidissimo. «Ho parlato con lei poco prima di andare allo stadio. È sempre così», racconta Noah a bassa voce...

Eppure le etichette che gli sono state appiccicate addosso sono quelle dello spaccone, dello smargiasso.  Forse perché s di sé ha grandi speranze e non lo nasconde: «Posso correre in 9”65 e in 19”10». Se l’è fatto stampare anche sulle scarpe, i suoi stivali delle sette leghe. «Bolt sa quello che sto facendo e lo ne sono orgoglioso».

Lyles ha corso i 200 37 volte sotto i 20”. Nessuno come lui, neppure il Lampo. Ma l’inseguimento a quel doppio 19 berlinese si sta dimostrando per quel che è: aspro. In questi casi sono le cifre la guida più eloquente e interessante.

In quell’agosto del 2009, all’Olympiastadion di Berlino, nei giorni che precedevano il suo 23° compleanno, recitò il miglior Bolt. La scompozione delle due metà dei 200 rivelò che Usain aveva corso la curva in 9.92 e il rettilineo in 9.27.

Lyles, che ha una fase lanciata impressionante (lo ha dimostrato vincendo i 100 in 9.83, spazzando via il suo record personale), in rettilineo è stato più veloce di Bolt in due occasioni: l’anno scorso, a Eugene, quando mise le mani sul suo secondo titolo e sottrasse il record Usa a Michael Johnson, chiuse in 19.31, un centesimo sotto il tempo che ad Atlanta diede all’Espresso di Waco il titolo olimpico e uno stordente record del mondo migliorato di 0.34: in quell’occasione, 10.15+9.16. E anche venerdì Lyles ha saputo esprimersi in una seconda parte impressionante, 9.26. Ma dopo un 10.26 in curva. Sul suo volto, qualche perplessità.

Lo slancio

Sono dati che contrastano con l’impressione visiva, persino con quella calligrafia. Bolt non aveva una tecnica di corsa esteticamente magnifica quanto quella di Lyles. Gigantesco com’era, tendeva a tener le spalle un po’ rigide creando quasi un effetto caracollante. Lyles, fisicamente molto normale, 1.80 per 70, ha affinato la tecnica sino a condurla sul sentiero della perfezione.

Aderenza e nessuno sbandamento in curva che diventa la fionda che lo lancia sul rettilineo. La differenza sta nella struttura e nei dati antropometrici dei due? Ottenuta l’accelerazione e raggiunto la massima velocità da mantenere, Usain offriva passi da 2,62, con picchi che qualcuno, in quei giorni berlinesi, registrò a 44 orari.

Questi dati, queste analisi sono a conoscenza di Noah che sa benissimo quanto aspro continuerà a essere il suo inseguimento, la sua ambizione. «Eppure io sono quasi certo che lo farò». Ha aggiunto un quasi che assomiglia a una piccola crepa sulle sicurezze che spesso urla al mondo. Ma chi ha molto sofferto, porta in sé la forza per lo slancio vitale.

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