Dalla frontiera tra Messico e Stati Uniti a quella imposta dalla Brexit, dalla protesta degli agricoltori europei contro il grano ucraino all’ultima crisi nel mar Rosso. Il mondo come lo avevamo immaginato rischia di capitolare proprio sulle barriere che voleva eliminare. E il cibo ne è vittima
La globalizzazione è tutta una questione di confini. È nata con l’obiettivo di abbatterli, ma proprio lungo le frontiere rischia di esplodere. Le crisi che si stanno consumando in giro per il mondo rispecchiano situazioni specifiche, spesso legate a questioni di politica nazionale o a intricate vicende internazionali.
Altre volte ancora sono vere entrambe, come nel caso del mancato accordo tra repubblicani e democratici statunitensi per irrigidire le regole di entrata dal Messico, trasformato in un ricatto dai conservatori per avere il loro assenso sui nuovi fondi all’Ucraina.
La guerra è stato un trauma da cui si fa fatica a uscire e che alimenta gli umori negativi e dà sfoggio dell’ormai nota war fatigue, ben rappresentata dalla rabbia degli agricoltori dell’Europa dell’est, quelli che più patiscono l’abolizione delle restrizioni al grano ucraino decisa dai loro governi.
Ancora prima della parola “conflitto”, era stata la crasi “Brexit” a far sprofondare la comunità dei 27 in uno stato di angoscia. E allo stesso tempo di consapevolezza: quella che alla fine ci avrebbe rimesso il Regno Unito, uno scenario che si sta facendo effettivamente più nitido pian piano che le conseguenze dell’uscita si fanno sentire. Nell’Ue invece l’attenzione è rivolta più al nuovo fronte in Medio Oriente che rappresenta una mina vagante anche per il commercio europeo. I ribelli yemeniti degli Houthi lo mettono a repentaglio con i loro missili lanciati contro le navi cargo occidentali.
Dal Messico non si passa più
Nei treni merci che attraversavano il confine tra Messico e Stati Uniti non c’erano solamente prodotti commerciali. Nascosti nei vagoni sono stati trovati anche migranti, infilati lì dentro dai trafficanti di esseri umani. Motivo per cui la Customs and Border Protection ha deciso a metà dicembre di chiudere i due ponti ferroviari di Eagle Pass ed El Paso, dove passa il 45 per cento delle spedizioni transfrontaliere.
Una misura simile a quella presa un paio di settimane prima per il valico di Lukeville, in Arizona. Il fine era reindirizzare gli agenti di frontiera altrove, vista la carenza di personale. Tempo qualche giorno e sono però montate le prime lamentele. Non per la condizione in cui venivano lasciati i migranti, quanto piuttosto per i danni che questa misura sta provocando per l’export. «Ogni giorno di chiusura dei valichi stimiamo che quasi un milione di bushel di esportazioni di cereali vadano potenzialmente persi, insieme a molti altri prodotti agricoli» hanno scritto in una lettera le associazioni agricole American Feed Industry Association e la National Corn Growers Association. L’hanno indirizzata ad Alejandro Mayorkas, il segretario per la Sicurezza nazionale finito nel mirino dei repubblicani che ne chiedono la testa colpevolizzandolo della crisi migratoria, ricordandogli che solo per il grano si parla di 200 milioni di dollari bruciati ogni giorno. «Vi esortiamo ad agire immediatamente» hanno aggiunto, chiedendo la riapertura dei valichi.
A questa storia contribuiscono diversi fattori. I migranti, la guerra in Europa e una potenziale carenza alimentare. L’impasse si è creato per un ricatto del partito repubblicano, che pretende di vedere blindati i confini del Texas, su cui si riversano oltre 10mila migranti al giorno. In cambio erano pronti ad approvare nuovi fondi da destinare all’Ucraina, un piano da 60 miliardi di dollari, prima che Donald Trump convincesse i suoi a farlo saltare.
Il risultato attuale è che non passa più niente. Dagli Stati Uniti al Messico venivano esportati – in ordine decrescente di quantità – mais, semi di soia, latticini, carne di maiale, grano, pollame, manzo e farina di soia. Il che è un problema tanto per i contadini americani quanto per quelli messicani. Le scorte di mais giallo e farina di soia che vengono utilizzate per l’industria dell’allevamento sono quasi esaurite, avvertiva a fine anno scorso la potente lobby agricola Cna. Dando anche un orizzonte temporale strettissimo entro cui agire, prima dell’esaurimento: dai tre agli otto giorni per il primo, tra gli otto e i venti per la seconda.
Non è poi meno importante il fatto che, a causa della scarsità del cibo, potrebbe aumentare il numero di coloro che tentano di attraversare il confine, rendendo la crisi migratoria ancor più drammatica. Già nel 2020, oltre sette migranti centroamericani su dieci erano esposti all’insicurezza alimentare, chi consumando un pasto al giorno e chi nemmeno quello.
Colpa della siccità e delle sfide del cambiamento climatico che mettono a dura prova l’agricoltura. Problemi a cui si aggiungono le scelte della politica che, come in questo caso, contribuisce a esacerbare la situazione.
La Brexit svuota gli scaffali
«Brexit means Brexit». Più che una precisazione, quello della prima ministra Theresa May era un avvertimento. Una frase traducibile in tanti modi. Il più semplice: una volta abbandonata l’Europa non si torna più indietro, sebbene a volerlo è più di qualcuno. Sono passati otto anni dal referendum, ma il vero impatto lo si sta comprendendo a scoppio ritardato. Ancor di più dopo il nuovo approccio di Downing Street. A fine gennaio è entrato in vigore il Border Target Operating Model, che richiede a chi importa nel Regno Unito dei certificati sanitari per i prodotti animali e vegetali a rischio medio-alto.
Quindi, per una questione di sicurezza, carne, uova, pesce, latticini e soprattutto verdure, a partire da maggio verranno sezionati anche fisicamente alla frontiera. Comportando tra le tante conseguenze un aumento dei costi per gli esportatori, obbligati a pagare ulteriori tariffe per spedire le loro merci Oltremanica: il governo britannico parla di un aumento per le imprese di 330 milioni di sterline all’anno. Sempre che lo vogliano. Già, perché il rischio è che in molti decidano di guardare ad altri mercati, specialmente le piccole aziende che non possono gestire certe spese. Lasciando vuoti o quasi gli scaffali dei piccoli esercenti sparsi nel Regno Unito.
Il pericolo è concreto. La British Meat Processors Association non ha usato mezze misure nel parlare di un «shock improvviso nella catena di approvvigionamento alimentare», considerato che circa quattro britannici su dieci mangiano carne almeno una volta al giorno oltre il 41 per cento un paio a settimana.
Tanto che non c’è più timore a parlare di “crisi alimentare” anche per un paese industrializzato come il Regno Unito. Se la mancanza di frutta e verdura registrata un anno fa non era del tutto colpa della Brexit in quanto i controlli al confine ancora non erano entrati in vigore, come affermava la British Retail Consortium, da adesso lo sono e pertanto questa nuova crisi ha un chiaro responsabile.
La guerra del grano
«Condanniamo fermamente la deliberata distruzione del nostro grano». L’accusa lanciata dal ministro dell’Agricoltura ucraina, Viktor Juščenko, ha fatto un rumore sordo. Non tanto per il significato, ma per chi è dietro l’iniziativa: la Polonia, ovvero uno dei suoi più grandi alleati contro la Russia di Vladimir Putin. Varsavia non ha di certo intenzione di voltarsi dall’altra parte e di abbandonare il vicino di casa al suo destino, ma il discorso cambia per i suoi agricoltori.
Si sono riversati lungo la frontiera, bloccando i punti di passaggio dove passano i camion e rovesciando in strada i cereali che venivano trasportati. Il motivo è denunciare la rinnovata sospensione dei dazi di importazione dei prodotti ucraini fino a metà 2025, eliminati per facilitare le esportazioni con la guerra in corso. Sono stati chiamati corridoi di solidarietà, ma sono stati recepiti in modo opposto.
La concorrenza è aumentata per via di quei prodotti a basso costo, anzi a detta dei contadini dell’Europa dell’est – insieme ai polacchi, anche ungheresi, cechi, slovacchi, bulgari e romeni – l’hanno letteralmente sbaragliata. Colpevoli di questa situazione, il governo di Varsavia e non da meno l’Unione europea.
Con i primi lamentano di non difendere l’interesse nazionale, mentre accusano la seconda di metterli fuori mercato con le sue politiche, incluse quelle che dovrebbero portare alla trasformazione verde. Per provare a venire incontro ai contadini polacchi, l’esecutivo di Varsavia sta prendendo in considerazione di reintrodurre i divieti di importazione imposti dal precedente partito al potere, il PiS.
Kiev ha già messo in guardia sulle potenziali conseguenze della rabbia ucraina. «L’incapacità delle autorità polacche di reagire alla distruzione delle forniture porterà a un aumento della xenofobia e della violenza politica» ha avvertito il numero due all’Agricoltura, Taras Katchka. Il rischio è che quella «banda», come ha definito gli agricoltori polacchi, alcuni dei quali appartenenti all’estrema destra, «inizierà a uccidere gli ucraini perché sono ucraini».
Rischio mar Rosso
A inizio febbraio sedicimila tra ovini e bovini sono rimasti bloccati a largo delle coste australiane. Il motivo era la nave su cui venivano trasportate, la MV Bahijah di proprietà israeliana, una delle tante che da qualche mese sono diventate bersaglio dei ribelli Houthi yemeniti. I razzi che continuano a lanciare sul mar Rosso contro imbarcazioni battenti bandiere occidentali e dello Stato ebraico sono una dimostrazione di solidarietà con quanto sta accadendo a Gaza, ha spiegato il gruppo. Mettendo così in crisi un’area, quella dello stretto di Bab al Mandeb, dove passa il 12 per cento del mercato mondiale, e costringendo i cargo a circumnavigare l’Africa per evitare rischi.
La proposta di cambiare rotta è stata avanzata anche alla MV Bahijah, che ha tuttavia rifiutato per salvaguardare la salute degli animali. Allungare il viaggio comporta un ritardo di settimane per le consegne e un drastico aumento dei costi di spedizione.
A fine anno scorso, la Danone aveva comunicato che con una crisi di due o tre mesi, sarebbe stata costretta a trovare percorsi alternativi. La questione interessa meno gli Stati Uniti quanto piuttosto l’Europa, in particolar modo l’Italia. La rappresaglia degli Houthi potrebbe bloccare l’export di frutta e verdura, un danno che per Coldiretti ammonta a circa 800 milioni di euro.
Sono cifre che dovranno venire confermate nel tempo, quello che serve per valutare l’impatto di questa nuova crisi che infiamma un medio oriente già bollente. «Esiste un rischio significativo» che «si ripercuoterà sull’economia alimentare» ha avvertito l’Institute of Export & International Trade.
I prodotti a breve scadenza – come appunto frutta e verdura, ma anche carne e uova – subiranno pertanto conseguenze dirette da questa situazione, ma bisognerà capirne la portata. Una cosa è certa: dopo il Covid-19, è la minaccia più pericolosa per il mondo globalizzato. Fatto a pezzi lungo quei confini che pensava di rendere superflui.
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