- Paxlovid, e in misura minore anche molnupiravir, rappresentano una grande speranza per coloro che hanno sistemi immunitari che non reagiscono bene o per niente alla vaccinazione
- Finora gli antivirali si sono dimostrati più robusti degli anticorpi monoclonali rispetto alle varianti del virus, in particolare Omicron.
- Mentre molnupiravir è una molecola riposizionata, Paxlovid non esisteva prima che la pandemia cominciasse.
Stando agli ultimi dati di monitoraggio pubblicati dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) la scorsa settimana, tra il 7 e il 9 febbraio sono stati prescritti 41 cicli di trattamento con Paxlovid, il nuovo antivirale sviluppato da Pfizer, autorizzato dall’Agenzia europea per i medicinali (Ema) a fine gennaio, per la cura di persone a rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19.
Il trattamento, che deve iniziare entro cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi, prevede l’assunzione di tre pillole due volte al giorno per cinque giorni. Delle tre compresse, due contengono il principio attivo nirmatrelvir, una molecola capace di inibire il processo di replicazione del Sars-CoV-2 all’interno della cellula ospite.
La terza contiene invece il ritonavir, un agente antivirale per l’Hiv, il virus che causa l’Aids, e che serve a mantenere alta la concentrazione del nirmatrelvir nel sangue per un tempo sufficientemente lungo.
Si tratta di un farmaco molto promettente. In uno studio clinico che ha coinvolto circa 2.200 persone con almeno una condizione che aumenta il rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19, 1.100 partecipanti hanno ricevuto Paxlovid e gli altri un placebo.
Nel primo gruppo, solo otto persone sono state ricoverate e nessuna è morta nel mese successivo all’inizio del trattamento, mentre nel secondo gruppo i ricoveri sono stati 66, 12 dei quali si sono conclusi con la morte. Il farmaco ha dunque ridotto il rischio di ospedalizzazione o morte dell’88 per cento.
Insieme a Paxlovid, ci sono altri due antivirali autorizzati da AIFA a fine dicembre per la cura di persone a rischio. Uno è il molnupiravir, prodotto da Merck col nome di Lagevrio e che può essere assunto per via orale, l’altro è il remdesivir, prodotto da Gilead col nome di Velkury e che deve essere somministrato per via endovenosa. Finora il remdesivir era stato usato solo come trattamento di pazienti ospedalizzati e con gravi difficoltà respiratorie.
I tre antivirali hanno l’obiettivo di rallentare la replicazione virale, ma lo fanno in modi diversi. Mentre Paxlovid mette fuori gioco un enzima, chiamato proteasi, che svolge un ruolo fondamentale nel processo di replicazione del virus, molnupiravir e remdesivir si integrano nella catena dell’Rna virale e introducono una serie di errori che pur non inibendo la replicazione danno luogo a copie non funzionanti e incapaci di riprodursi ulteriormente.
Sempre dai dati Aifa si legge che il remdesivir è stato prescritto come trattamento precoce dell’infezione a 356 persone tra il 5 e l’11 gennaio e poi a circa 500-600 persone a settimana. Il molnupiravir è stato prescritto a 650 persone tra il 6 e il 12 gennaio e poi a circa 1.200-1.300 persone a settimana.
Paxlovid contro molnupiravir
Bisogna vedere se succederà come negli Stati Uniti, dove Paxlovid è introvabile mentre sugli scaffali delle farmacie si accumulano confezioni di molnupiravir. I dati dello Us Department of health and human services indicano che al 9 febbraio ogni 100.000 abitanti erano disponibili circa 30 cicli di Paxlovid e 150 di molnupiravir.
Il motivo è che molnupiravir ha un’efficacia inferiore a quella di Paxlovid nell’evitare il ricovero e la morte, pari a circa il 30 per cento. Sarà interessante vedere ora se questi risultati verranno confermati sul campo. Un altro fattore che potrebbe limitare l’impiego di molnupiravir è che pone rischi aggiuntivi per le donne incinte o che stanno allattando e per le coppie potenzialmente fertili.
Per ora la struttura commissariale diretta da Francesco Paolo Figliuolo ha firmato contratti per la fornitura, nell’arco di quest’anno, di 600mila cicli di Paxlovid, di cui 11.200 già consegnati, e 50mila cicli di molnupiravir, di cui 12mila già consegnati.
«È solo questione di organizzazione», commenta Vincenzo Summa, professore di chimica farmaceutica all’Università Federico II di Napoli con alle spalle oltre venti anni di esperienza nello sviluppo di farmaci prima alla Merck e poi alla Irbm a Pomezia. «Probabilmente si ripeterà quanto abbiamo visto accadere con i vaccini, almeno nei paesi occidentali: una disponibilità inizialmente limitata e poi più ampia e capace di soddisfare la domanda.»
Paxlovid, e in misura minore anche molnupiravir, rappresentano una grande speranza per coloro che hanno sistemi immunitari che non reagiscono bene o per niente alla vaccinazione, per età, perché prendono farmaci immunosoppressori o perché soffrono di malattie congenite. Queste persone hanno finalmente un’opzione terapeutica che non richiede il ricovero in ospedale.
Finora la loro unica possibilità erano gli anticorpi monoclonali o cocktail di essi, che possono essere somministrati solo per via endovenosa in ospedale e che si sono dimostrati meno robusti rispetto alle nuove varianti del virus, in particolare Omicron. Tra quelli autorizzati in Italia, solo sotrovimab, prodotto da GlaxoSmithKline, si è dimostrato efficace contro l’ultima variante.
Come hanno scoperto Paxlovid
Mentre molnupiravir e remdesivir sono due farmaci riposizionati, cioè composti che esistevano già prima della pandemia ed erano già stati testati in ambito clinico, Paxlovid, o meglio il suo principio attivo contro Sars-CoV-2 cioè il nirmatrelvir, è una molecola nuova sviluppata nell’arco di sei mesi da Pfizer.
I chimici della multinazionale statunitense sono partiti da un composto, messo a punto nel 2003 per contrastare l’epidemia di Sars esplosa in quel periodo, che non avevano avuto tempo di testare sul campo. L’epidemia si era infatti spenta nell’arco di qualche mese. Il composto, ideato per la somministrazione endovenosa, era attivo contro la proteasi del Sars-CoV, il virus della Sars, che è quasi identica a quella del Sars-CoV-2.
«Avere avuto un punto di partenza è un vantaggio notevole», commenta Summa, «che gli ha permesso di intraprendere due sfide ulteriori: rendere la molecola efficace per via orale e migliorare la sua affinità con Sars-CoV-2». Per farlo hanno sfruttato tutta la conoscenza scientifica a disposizione sugli inibitori della proteasi. «Per esempio hanno fatto un ibrido tra il loro composto di partenza e una parte del boceprevir, un agente antivirale formulato dalla farmaceutica Schering-Plough alla fine degli anni Novanta contro il virus dell’epatite C», continua Summa, che ha partecipato al processo di scoperta e sviluppo di un altro farmaco contro l’epatite C chiamato Zapatier quando lavorava alla Merck.
«Incorporare nella molecola in fase di sviluppo parti di strutture di farmaci già noti è estremamente vantaggioso durante un processo di drug discovery che ha vincoli temporali così stringenti, perché già se ne conosce il profilo di metabolismo e tossicità negli esseri umani». Questa scelta ha aumentato la capacità del composto di permeare la barriera intestinale e quindi lo ha reso disponibile oralmente. Ha anche aumentato la capacità dell’intera molecola di legarsi con la proteasi del Sars-CoV-2 rispetto al composto di partenza.
Paxlovid fa parte della prima generazione di antivirali e può essere migliorato.
«Il limite principale di Paxlovid è la necessità di assumere, insieme alla molecola attiva contro Sars-CoV-2 anche una seconda molecola, il ritonavir, per rallentare la degradazione della prima da parte del nostro organismo» spiega Summa.
Il ritonavir inibisce il metabolismo ossidativo che il nostro organismo usa per degradare ed eliminare una serie di molecole riconosciute come estranee, come i farmaci.
«Per questo è necessario valutare l’interazione di Paxlovid con altri trattamenti farmacologici in corso magari per curare patologie croniche, al fine di evitare effetti di tossicità. Il ritonavir mantiene alta nel sangue la concentrazione sia della molecola contro Sars-CoV-2 che di quelle contenute in altri farmaci e questo potrebbe causare tossicità. La fortuna è che l’infezione con cui abbiamo a che fare è acuta e non cronica, come per esempio accade col virus dell’Hiv, e dunque il trattamento dura solo cinque giorni. Sospendere le altre terapie in corso per cinque giorni dovrebbe essere fattibile nella maggior parte dei casi.»
Secondo Summa il primo miglioramento a cui i chimici medici lavoreranno sarà quello di eliminare il ritonavir e ridurre il numero di pillole da assumere, migliorando ancora la farmacocinetica del composto. Questo aumenta l’adesione al piano terapeutico oltre a ridurre i costi di produzione.
Affinché Paxlovid rappresenti davvero una svolta nella nostra lotta contro Covid-19 è però fondamentale che le persone a rischio lo prendano entro pochi giorni dall’insorgenza dei sintomi. Questo richiede ampia disponibilità del farmaco ma anche possibilità di eseguire test diagnostici in tempi brevi.
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