- Russia e Ucraina contribuiscono insieme a circa il 70 per cento della produzione mondiale di olio di semi di girasole, il miglior sostituto dell’olio di palma. La guerra ha imposto la scarsità di questo bene, il cui prezzo è cresciuto a dismisura
- Il declino dell’olio di semi ha imposto un ritorno di fiamma dell’olio di palma, dopo le polemiche legate alla sua sostenibilità
- A goderne di più sono le produttrici storiche, come Indonesia e Malesia, ma anche quelle del sud del mondo che cogliono sfruttare il momento tenendo bene a mente le lezioni del passato
Prima utilizzato ovunque, poi sconfessato dagli ambientalisti, infine bandito per la potenziale pericolosità. Il ciclo di vita dell’olio palma sembrava esaurirsi di fronte alle paure di chi vedeva nei suoi acidi grassi saturi una minaccia alla salute dell’uomo, nonostante l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) abbia più volte sottolineato come, con una normale alimentazione, sia quasi impossibile raggiungere le quantità necessarie per modificare il patrimonio genetico delle nostre cellule. Niente da fare, la campagna mediatica contro quest’olio vegetale aveva convinto i consumatori a scegliere prodotti differenti, come l’olio di semi di girasole, un’ottima opzione, più sana per loro e per la biodiversità. Peccato però che la produzione sia, da quindici mesi a questa parte, ostaggio della campagna russa d’Ucraina. La conseguenza inevitabile l’ha descritta molto chiaramente Richard Walker, presidente esecutivo della catena di supermercati British Iceland: «Ci sono alcune preparazioni in cui l’unico valido sostituto dell’olio di girasole risulta l’olio di palma. Lo dico con grande rammarico ma, nelle attuali circostanze, l’unica alternativa sarebbe quella di liberare i nostri congelatori e scaffali di un’ampia gamma di prodotti di base».
Dargli torto risulta oggettivamente complicato. Russia e Ucraina contribuiscono insieme a circa il 70 per cento della produzione mondiale di olio di semi di girasole, anch’essa vittima a suo modo della guerra. Il blocco dei cargo nei porti ucraini nel mar Nero ha ridotto drasticamente la disponibilità di questo prodotto, innalzando al contempo i prezzi. È una dura quanto antica legge dell’economia: meno è la quantità, più il prodotto diventa costoso (chiedere ai paesi nordafricani e mediorientali gli effetti dell’ultimo periodo). A questo si aggiunge il patriottismo di alcuni paesi produttori di cereali come India, Argentina e Indonesia, che hanno ridotto l’export, quando non del tutto bloccato. Costringendo, di fatto, le aziende a un clamoroso passo indietro. Il volano viene per lo più rappresentato da quelle più piccole piuttosto che dalla grande distribuzione, aiutata dalle scorte di semi di girasole che ancora può sfruttare. Tuttavia, se il conflitto dovesse durare ancora a lungo, anche quei pochi residui rimasti andranno via via a esaurirsi.
Tornare sui propri passi
Il ritorno al passato è testimoniato dai recenti report sui prezzi alimentari della Fao, che nell’ultimo periodo ha notato una crescita insolita dell’olio di palma, tornato con prepotenza sul mercato. A metterlo fuori gioco non era stata la legge bensì la sensibilità dei consumatori, attenti a recepire le avvertenze sui veri rischi di tale prodotto. Ricavato dalla polpa dei frutti della palma e lavorato per migliorare le sue peculiarità, questo olio vegetale può rappresentare un rischio per l’uomo che lo assume a quantità fuori dalla norma, a causa dei grassi presenti al suo interno che potrebbero provocare problemi cardiovascolari, ma soprattutto per l’habitat naturale. Per far spazio alle coltivazioni di olio di palma, infatti, ne vengono sacrificate molte altre, deforestando intere aree di terreno e creando di fatto una monocultura. Sicuramente redditizia per le tasche dei produttori, ma dannosa per il pianeta.
Dopo varie denunce e battaglie da parte di attivisti e organizzazioni, si sono cominciate a prendere delle contromisure. Avendo compreso i suoi potenziali rischi, ma non potendolo vietare, l’olio di palma deve rispondere a elevati standard qualitativi prima di essere commercializzato. Pertanto, gran parte viene etichettato come prodotto sicuro, sia per l’essere umano sia per l’habitat naturale, con l’Europa fiore all’occhiello in questo senso. È qui che si concentra il 45 per cento del consumo globale di olio di palma certificato ed è sempre qui che si registra una diminuzione della sua importazione, confermando quanto la regione possa ricoprire un ruolo cruciale in questa partita, spingendo il mercato mondiale verso una produzione più sostenibile. Specie se pensiamo che solo un quinto dell’olio di palma realizzato nel mondo ha ottenuto le giuste garanzie su come viene realizzato, mentre la metà di quello prodotto in modo sostenibile viene venduto con l’etichetta rilasciata dalle organizzazioni competenti, come la Roundtable on sustainable palm oil.
Seconda opportunità
A sguazzare in questa situazione sono i maggiori produttori di olio di palma. Il duopolio è costituito dall’asse Indonesia-Malesia, rispettivamente prima e seconda fornitrici. Sommate, compongono l’85 per cento di quella mondiale. Più in basso, ma comunque sopra le mille tonnellate prodotte, anche Thailandia, Colombia e Nigeria. Sotto questa soglia, ci sono invece Guatemala, Papua Nuova Guinea, Costa d’Avorio, Honduras e Brasile. Tutte economie del sud, che potrebbero sfruttare il momento per fare cassa e accrescere il proprio status. Abuja, ad esempio, negli anni Sessanta era prima produttrice al mondo, salvo poi puntare sul petrolio. Tuttavia, da qualche tempo, ha deciso per una retromarcia con una differenza sostanziale: per la coltivazione verranno utilizzati solo terreni degradati e rimessi in sesto, in modo tale da non contribuire alla deforestazione di nuove aree.
Le lezioni del passato offrono infatti un’allettante seconda opportunità. La centralità di quest’olio, inoltre, è dovuta al fatto che lo ritroviamo non solo nel cibo ma anche per detersivi, saponi, cosmetici e soprattutto biodiesel. Per dirla con i numeri offerti dal Wwf, il 50 per cento dei prodotti che troviamo in un supermercato vengono prodotti con olio di palma. Il che vuol dire che è difficile farne a meno, a maggior ragione se le soluzioni scarseggiano, sebbene questo riaccenda inevitabilmente il dibattito sul suo impatto. Specie dopo che Giacarta ha deciso di bloccarne le esportazioni, con conseguente passo indietro dell’India che per la prima volta ha annullato un ordine di 75mila tonnellate a causa dei prezzi troppo alti. Il protezionismo indonesiano ha alimentato anche i desideri delle altre concorrenti, Kuala Lumpur in testa. Il governo malese è in cerca delle dovute certificazioni di sostenibilità, facendo seguito alla decisione di molte sue aziende, decise ad acquistare solo olio di palma che venga realizzato rispettando l’ambiente e il lavoratore, troppo spesso soggetto a soprusi in chiara violazione dei diritti umani.
La guerra in Ucraina appare dunque come un punto di svolta nel mercato dell’olio di palma. A pesare è inoltre il fragile accordo sul grano siglato a Istanbul lo scorso luglio, su cui nasce uno scontro ogni qual volta si avvicina la sua proroga. Estenderlo è di vitale importanza, letteralmente. Più a lungo i cereali ucraini e russi rimarranno prigionieri del conflitto, maggiore sarà la richiesta dell’olio di palma. Non più considerato lo spauracchio di un tempo, ma per questioni di necessità.
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