Aston Villa, Everton, Ipswich Town, Leeds United, Newcastle United, Nottingham Forest, West Ham United. Questo è il catalogo, il diario dell’assenza. Sono state squadre cariche di gloria tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, quando il calcio inglese non era solo Liverpool o Manchester United, ma portava al successo nelle coppe europee anche la working class del proprio movimento, lì dove contavano le idee e dove alcuni allenatori hanno fatto la storia, dal più mediatico Brian Clough, al duetto Ron Saunders-Tony Burton, fino al mitico Bobby Robson.

Ventiquattro club hanno vinto almeno una volta il campionato inglese, ma l’Aston Villa non ci riesce dal 1981, il Newcastle dal 1927, l’Ipswich dal 1962, il Nottingham Forest dal 1978, il Leeds non c’è più riuscito dopo il 1992. Se restringiamo il campo alla Premier League nata nel 1992, a parte Blackburn Rovers e Leicester City, il campionato è stato vinto da cinque squadre in tutto: Arsenal, Chelsea, Liverpool, i due Manchester. Lo United non lo conquistava dal 1990.

L’effetto violenza

Quello che è accaduto negli ultimi trent’anni è un combinato di crescita economica, nuove regole finanziarie e un’attenzione più stringente alla sicurezza negli stadi. L’Heysel prima e Hillsborough dopo hanno cambiato il volto di un movimento, colpevole di non aver messo mano in tempo al fenomeno hooligan e non solo. Dopo la strage di Bruxelles del 29 maggio 1985, Margaret Thatcher emise due provvedimenti, lo Sporting Event Act e il Public Order, il primo limitava l’acquisto e il consumo di bevande alcoliche negli stadi e nei mezzi pubblici speciali per i tifosi, il secondo permetteva alla magistratura di interdire la presenza agli individui considerati violenti, con obbligo di firma nei giorni delle partite. Più determinante fu il Taylor Report dopo la tragedia di Hillsborough del 1989. Ridisegnò le norme di sicurezza degli stadi, costringendo i club a riprogettarli, con l’eliminazione delle barriere, l’installazione di telecamere di sicurezza e la soppressione dei posti in piedi nelle gradinate.

Dal 1888 al 1992 la Football League era stata composta da quattro divisioni. La squadra che giocava in casa girava il 20 per cento dell’incasso a quella ospite. Quando la BBC iniziò a trasmettere Match of the Day i soldi venivano redistribuiti tra tutti i 92 club professionistici. Questo permetteva una base economica di partenza abbastanza egualitaria e un continuo ricambio al vertice, con squadre come il Derby County di Brian Clough capaci di vincere il campionato, più tardi il Nottingham Forest, addirittura da neo promossa, sempre con Clough in panchina. Una crescita porta sempre con sé degli strappi.

Il primo fu la mancata condivisione degli incassi al botteghino, poi una diversa ripartizione dei diritti televisivi: il 50 per cento alla First, il 25 alla Second, e il restante 25 alla Third e Fourth Division. E, se da una parte la voglia di calcio cresceva, dall’altra c’era chi metteva in guardia dall’eccessiva esposizione televisiva. Va detto che l’Inghilterra ha saputo dosare sempre al meglio innovazione e tradizione, non senza strappi. Il costo dei biglietti di fatto impedisce ad alcune fasce sociali di frequentare gli stadi. Una condizione che ha spostato un certo pubblico verso il calcio delle serie minori, facendo nascere un’avversione nei confronti delle proprietà straniere.

Lo strappo della Premier

La nascita della Premier League è stata la spallata finale a un certo football, lì dove le cosiddette Big 5, Arsenal, Everton, Liverpool, Manchester United e Tottenham, capirono che solo con un ulteriore strappo avrebbero massimizzato la ripartizione dei diritti televisivi senza l’obbligo di dividerli con le altre divisioni. Arrivando ai club di Premier League che oggi si spartiscono più di quanto ottiene una squadra che vince la Champions e addirittura più di quanto mettevano insieme tutte le società di First Division nel 1991-92; quando nella First Division c’erano appena tredici giocatori non britannici.

Di pari passo, l’introduzione del Fair Play finanziario, che aveva l’obiettivo di ridurre l’indebitamento del calcio europeo da una parte e una maggiore “democratizzazione” dall’altra, ha cristallizzato le ricchezze rendendo più ricchi i club che avevano già un vantaggio economico e di fatto impedendo agli underdog di vincere la coppa regina; in questo senso il Porto di Mourinho, vent’anni fa, è stato l’ultimo.

La Premier League è cresciuta a dismisura, ragionando comunque come movimento, i suoi stadi sono sempre pieni e i diritti televisivi costano sempre di più, una bolla che però non si può immaginare infinita. Il problema, infatti, riguarda quei club che conquistano la promozione e poi retrocedono subito o dopo qualche anno, trovandosi improvvisamente privi di quegli introiti che solo il massimo campionato concede, con cadute inarrestabili, prima economiche e a seguire sportive.

Per tutti questi motivi, insieme con errori decisionali e di programmazione, squadre storiche sono state relegate all’amarcord. Il -10 che punisce l’Everton per aver violato le regole di sostenibilità economica è la più grande sanzione sportiva nella storia del campionato inglese e punisce la tentazione di vivere al di sopra dei propri mezzi, in attesa di provvedimenti contro City e Chelsea. Con Unai Emery, specialista di coppe, l’Astron Villa è invece l’esempio che si può fare ancora calcio lontano dalle solite città, a Birmingham, dove una proprietà, metà Usa e metà egiziana, ha scelto il tecnico giusto.

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