- «Questa è la fine, mia bellissima amica...la fine dei nostri elaborati piani». Non sappiamo se “The end” di Jim Morrison sia nella playlist dei dischi più ascoltati dal capo leghista, certamente è la più adatta per i titoli di coda di un successo straordinario durato appena tre anni.
- Dalla crisi del Papeete a oggi il segretario della Lega ha sbagliato tutto e oggi, per la prima volta, rischia di essere sostituito.
- Il dissenso tra i parlamentari cresce con il passare dei giorni. In molti vogliono che venga fissato un congresso. Zaia e Fedriga si muovono. E nei prossimi giorni i giudici chiuderanno le indagini sullo scandalo del Metropol di Mosca.
«Questa è la fine, mia bellissima amica...la fine dei nostri elaborati piani». Non sappiamo se The end di Jim Morrison sia nella playlist dei dischi più ascoltati da Matteo Salvini, certamente è la più adatta per i titoli di coda di un successo straordinario durato appena tre anni. Breve eppure intenso, in difficoltà proprio quando gli manca un anno per festeggiare un decennio da segretario.
L’ex ministro rischia di arrivare a dicembre 2023 senza più i gradi da leader del partito o con una Lega ridotta a brandelli, incapace di arginare sia l’emorragia di parlamentari (iniziata da tempo) sia quella di tesserati ed elettori. Per comprendere la crisi attuale di Salvini basta ripercorrere gli ultimi tre anni di trionfi, scandali, tradimenti e fallimenti.
Partire cioè dalle parole pronunciate sulla spiaggia del Papeete di Milano Marittima, che ha portato alla caduta del primo governo Conte, per arrivare fino ai giorni nostri. Erano i mesi dello scandalo Metropol, con Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo, beccato a trattare un finanziamento per il partito nell’omonimo hotel di Mosca insieme agli emissari del potere putiniano. Ingredienti che ritornano oggi in un contesto internazionale segnato dalla guerra d’invasione russa in Ucraina. I demoni del segretario riaffiorano dal passato anche in questo inizio d’estate, con la diplomazia parallela avviata dal misterioso consulente Antonio Capuano, gli incontri riservati con Sergey Razov, l’ambasciatore di Putin a Roma, un viaggio organizzato a Mosca, all’insaputa di palazzo Chigi, e saltato all’ultimo per le polemiche.
Tutto questo mentre l’indagine dei pm di Milano sulla trattativa del Metropol, avviata dopo lo scoop giornalistico che l’ha svelata, è alle battute finali. I magistrati chiuderanno l’inchiesta nei prossimi giorni. Non è dato sapere se con una richiesta di archiviazione o con la notifica della chiusura indagine che prelude a richieste di rinvio a giudizio. In ogni caso c’è un dato certo: la trattativa c’è stata e non c’è alcun dubbio sul ruolo primario svolto da Savoini. I pm stanno finendo le ultime valutazioni sugli indizi raccolti per capire se sono sufficienti a contestare il reato di corruzione internazionale.
L’ultimo voto
«Dopo i ballottaggi vedrete, vedrete». Sono in tanti a ripeterlo, dentro e fuori la Lega Salvini premier che ha inglobato la vecchia Lega nord. Non è dato sapere a quale spettacolo pirotecnico assisteremo se mai si realizzerà la promessa della resa dei conti tra l’anima nordista e l’anima nazionalista. «La Lega Salvini è morta», dice un convinto bossiano. Nessuno ci mette la faccia, per ora. Tutti parlano ma nessuno prende un’iniziativa concreta per spodestare il leader che la macchina della propaganda costata svariati milioni ha trasformato in Capitano del sovranismo europeo. Merito di Luca Morisi, il genio della comunicazione leghista caduto in disgrazia, e del suo socio Andrea Paganella, lui ancora in auge nell’inner circle del capo.
I fallimenti in serie collezionati dal segretario leghista non sono più tollerati all’interno del partito. Anche perché quel 34 per cento conquistato alle Europee del 2019 che aveva sedato critici e ribelli si è dissolto.
I sondaggi attuali e i risultati raccolti nel primo turno delle amministrative dello scorso 12 giugno parlano di una forbice tra il 10 e il 15 per cento, persino al di sotto del 18 per cento, straordinario trionfo delle politiche del 2018. Una catastrofe, per quanto Salvini tenti di addolcirla con slogan ormai logori: «Abbiamo più sindaci di 5 anni fa e più consiglierei comunali».
Fallimenti ripetuti e costanti negli ultimi tre anni. Dai disastri nella scelta dei candidati di Roma e Milano per le ultimi comunali, a quelli delle regionali di Emilia-Romagna e Toscana, fino ai passi falsi nel condurre una diplomazia parallela con la Russia affidandosi a improbabili consulenti e nonostante i trascorsi moscoviti dei leghisti a caccia di finanziamenti dal Cremlino. «È mal consigliato», sintetizza un autorevole esponente del partito che ha avuto ruoli di vertice, «Matteo ha fatto piazza pulita dei federalisti per piazzare i volti nuovi del sovranismo circondandosi di yes man che mai lo criticano o lo mettono in guardia su possibili passi falsi».
L’analisi della sconfitta non fa parte del bagaglio politico di Salvini. Una settimana fa, a urne chiuse, durante la conferenza stampa nella sede di via Bellerio ha rimosso il problema: «Felici per 20 nuovi sindaci e 150 consiglieri della Lega». Sono tanti i leghisti che però analizzano i numeri e li confrontano con il passato recente. La Toscana per esempio è un simbolo dell’ascesa e del crollo di Salvini, ma anche degli errori commessi nella gestione personale del partito. A Pistoia il sindaco uscente in quota Fratelli d’Italia è stato riconfermato al primo turno. Solo che cinque anni fa la Lega aveva contribuito con il doppio dei voti eleggendo 4 consiglieri comunali, questa tornata ne avrà soltanto uno.
La regione vanta un presidio leghista dai tempi di Umberto Bossi. Fino al 2018 a guidare il partito regionale c’era Manuel Vescovi, che è cresciuto con il mito di Alberto da Giussano e dell’autonomia. C’era lui a marzo di quattro anni fa a festeggiare lo storico risultato del 18 per cento alle politiche che gli ha permesso di diventare senatore. Otto mesi più tardi, tuttavia, aveva annunciato le sue dimissioni da segretario regionale.
Per molti una decisione immotivata. Ma non sarebbe stata una sua scelta, Salvini gli avrebbe chiesto un passo indietro per fare spazio a Susanna Ceccardi, la sindaca di Cascina dura e pure dalla nuova Lega sovranista. Ceccardi è celebre per le molte gaffe diventate virali sui social network, l’ultima risale a poche settimane fa quando, dopo l’inizio della guerra, metteva in guardia da possibili infiltrazioni di finti rifugiati, migranti africani, tra i profughi ucraini.
Il cerchio magico sovranista
Quella toscana potrebbe apparire un piccola bega locale di partito, invece è molto di più e serve a capire la modalità con cui Salvini ha gestito il potere all’interno. Perché mentre Vescovi era diventato segretario con il voto dei militanti, Ceccardi è stata cooptata e piazzata come commissario al suo posto, senza confronto interno. Un canovaccio che si è ripetuto in altre regioni.
La conseguenza tangibile è il notevole calo di iscritti alla Lega Toscana: dai 2.100 militanti del 2018 si è passati ai 600 attuali. Ceccardi è stata poi candidata alle regionali ed è stata sconfitta dal centrosinistra guidato da Eugenio Giani. Oggi è nel cerchio magico di Matteo. Gruppo ristretto di consiglieri di cui fanno parte meno di dieci persone.
C’è Armando Siri, ideologo della flat tax leghista, che durante il primo governo Conte si è dovuto dimettere da sottosegretario ai Trasporti per un’indagine per corruzione a suo carico (pochi anni prima aveva patteggiato una pena per bancarotta). C’è Claudio Durigon, il potente ras che ha costruito la rete del consenso della Lega nel Lazio e che come Siri si è dovuto dimettere da sottosegretario del governo Draghi per le figuracce e le sue nostalgie del ventennio fascista.
Del gruppo fa parte Lorenzo Fontana, ufficialmente responsabile dei rapporti con l’estero, ufficiale di collegamento con i mondi del cattolicesimo oltranzista che si batte contro l’aborto, per la famiglia tradizionale e contro la concessione di pari diritti alle coppie dello stesso sesso.
Un posto tra i fedelissimi devoti del capo è riservato all’imprenditore Massimo Casanova, il proprietario del Papeete, incarnazione della nuova Lega creata a immagine e somiglianza del suo leader. Infine c’è Andrea Paganella, socio del più noto Luca Morisi con cui ha scalato il partito dietro le quinte creando una nuova architettura della propaganda. Paganella e Morisi hanno guadagnato milioni con la loro piccola società grazie alle consulenza pagate dalla Lega.
Ma chi tra questi è il più ascoltato da Salvini? «Dipende dal momento storico, oggi certamente Siri è tornato tra i primi consiglieri», trapela dall’entourage del capo. L’indizio che conferma questa voce è la chiusura dell’Accademia federale del partito: una scuola interna affidata al senatore Vescovi con lo scopo di formare i dirigenti.
Finita l’Accademia resta soltanto la scuola di formazione politica di Siri, gestita da un’azienda privata di proprietà degli amici di “mr. flat tax” che negli anni ha beneficiato di finanziamenti da aziende al centro di numerose segnalazioni dell’antiriciclaggio. Con la chiusura dell’Accademia il monopolio della formazione politica è saldamente in mano a Siri. Di fatto favorendo una ditta esterna invece che le casse del partito.
I tre errori politici
«Salvini all’inizio chiedeva, si informava e parlava con tutti, si fidava dei consigli di chi stava sui territori da più tempo, poi con il successo ha ucciso la democrazia interna e ha usato i commissari per proteggere la sua leadership», è l’analisi di un deputato di area nordista, che aggiunge: «C’è una vasta corrente interna alla Lega che ritiene siano tre gli errori imperdonabili del nostro segretario».
Il primo: «La follia della crisi di governo nell’estate del Papeete, con il Conte I i federalisti pensavano di poter ottenere qualcosa di concreto con la Lega nei posti chiavi di governo». Secondo: «Chiudere la stagione del confronto democratico con i congressi, l’ultimo risale al 2015. Dopo è iniziata la stagione dei nominati nei posti chiave della Lega». Terzo errore imperdonabile: «Dopo il 34 per cento ottenuto alle Europee non ha saputo capitalizzare quel risultato e custodirlo nel tempo perché ha messo sui territori gli ultimi arrivati e non chi aveva più esperienza, questo è avvenuto per paura di avere concorrenti in un futuro meno glorioso».
Di congresso Salvini non ne vuole sentire parlare. Non è in agenda, forse lo sarà dopo le politiche ma solo perché costretto da una probabile disfatta. «Il problema è però che al momento nessuno si candiderebbe a segretario di un partito che porta il nome per statuto del leader attuale», dice un senatore del nord.
Non è secondario questo aspetto. I vecchi leghisti hanno in tasca una doppia tessera, Lega nord e Lega Salvini premier. Altri hanno solo la prima ma sono usciti dalla militanza attiva. I partiti continuano a essere due, ma solo uno è vivo, la Lega nord è la bad company zeppa di debiti con lo stato per via della truffa da 49 milioni dei rimborsi elettorali, da restituire in comode rate per i prossimi 70 anni. Dunque di quale congresso si parla? Della Lega nord o di Salvini premier? Persino dentro la Lega c’è grande confusione. Alcuni dissidenti, al contrario, hanno studiato un piano per ridare voce alla “pancia padana” del paese.
Fuga da Matteo
Provare a quantificare il dissenso interno è possibile, a differenza di un anno fa Salvini ha perso la fiducia di un’ampia fetta di parlamentari. «Al Senato saremo una ventina», ammette uno di loro. Un terzo del gruppo (in totale sono 61). Non pochi se si considera che tra di loro siede Salvini in persona. Alla Camera i numeri aumentano di poco. Insomma, in parlamento ci sarebbero almeno 45 parlamentari in stato di agitazione permanente seppure ancora sottotraccia. «Come voti pesiamo dal 2,5 al 5 per cento, le assicuro che in Veneto, per dirne una, c’è molta tensione per l’assenza della Lega sul tema dell’autonomia», dice un senatore.
La situazione è seria. Anche perché i dissidenti si stanno organizzando. Gli scenari prospettati in gran segreto sono almeno tre. Se non cambia nulla, se cioè non ci sarà un congresso, un confronto franco e un conseguente cambio di linea sul federalismo, allora sarà fuga da Matteo e dalla sua Lega. Si guarda al centro con Carlo Calenda, a Forza Italia e a Giorgia Meloni, nonostante sull’autonomia la pensi in maniera opposta ai nordisti della Lega. M
I leghisti avrebbe però proposto a un deputato molto vicino a Meloni uno scambio: se Fratelli d’Italia vuole sfondare al nord ha bisogno dei voti dell’elettorato che un tempo si riconosceva nella Lega federalista, per questo potrebbe essere conveniente per Meloni sostenere la causa tradita da Salvini.
Un’ipotesi per ora. Identica, ma al rovescio, di quella adottata da Salvini nel 2015 per far crescere la Lega al sud, avviando così la trasformazione da forza autonomista a nazionalista. Con Meloni si tratterebbe di fare il contrario, dal centralismo “patriottico” a piccole concessioni alle regione settentrionali sul federalismo.
Le due soluzioni “interne”
In realtà esistono anche delle alternative alla fuga verso FdI. «Una è di buon senso, lasciare vivere entrambe le Leghe (nord e Salvini premier) in maniera autonoma, chi vuole resta in quella personale gli altri torneranno nella vecchia casa di sempre», ragiona un esponente della vecchia guardia pronto a dare battaglia. In questa direzione va il ricorso con cui un giorgettiano romagnolo ha chiesto ai giudici di far rivivere il vecchio partito sfruttando la violazione dello statuto che obbliga la Lega a convocare il congresso ogni tre anni. Se l’operazione giudiziaria dovesse andare in porto e i giudici dovessero obbligare a convocare un congresso della Lega nord sarebbero in molti a lasciare Matteo.
Ma c’è anche chi punta a un congresso della nuova Lega Salvini premier. In quell’occasione si punterebbe a cambiare lo statuto eliminando Salvini dal simbolo e lasciando una solo parola: Lega. Comunque andrà a finire forse il segretario avrebbe fatto bene a fidarsi di Giancarlo Giorgetti che in tempi non sospetti, raccontano fonti bene informate, aveva proposto a Matteo di istituzionalizzare le varie anime della Lega: una federazione di correnti dai No euro agli autonomisti, ognuno con un suo spazio ufficiale da rivendicare sui territori e da far valere nei congressi.
Intanto sotto traccia si avvertono movimenti in Friuli-Venezia Giulia. Il presidente di regione è il leghista Massimiliano Fedriga, che assieme al collega di partito veneto, Luca Zaia, è considerato il capo del blocco anti sovranista. Il problema è che nessuno dei due ha voglia di imbarcarsi nell’avventura di sostituire Salvini, troppo rischioso. «Zaia non vuole farlo e Fedriga al momento pensa a governare e ricandidarsi». Fedriga sta già preparando la corsa alle regionali dell’anno prossimo. La novità è che vuole proporre una lista del presidente da affiancare alla Lega Salvini premier. Inutile dire che la faccenda preoccupa non poco il segretario. Se, come già accaduto in Veneto con Zaia, la lista del presidente dovesse superare quella del partito sarebbe umiliante. Per questo, dicono più fonti, Salvini non è d’accordo e potrebbe entrare in conflitto con Fedriga. L’operazione potrebbe anche diventare l’occasione per misurare, per la prima volta in una tornata elettorale, l’opposizione interna.
Sempre che nel frattempo tutto resti così com’è. A settembre si svolgerà dopo lo stop degli ultimi anni, il raduno di Pontida. «A Salvini conviene andarci con un accordo interno tra le parti, se si presenta in queste condizioni sarà un disastro, i padani sono stufi», dice un senatore. Cosa intende? «Deve arrivare sul palco garantendo il federalismo, non per annunciare la caduta di un altro governo, altrimenti è finita». The end, appunto.
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