Dal 16 Agosto arriva su Disney+ la seconda stagione di una serie sulla cucina che non somiglia alle altre, non dice le cose che dicono le altre e più che parlare di cinema parla di ristorazione. Divisa quasi in due parti con un lungo episodio flashback in mezzo a separare le due parti, la serie parte male e trova un senso e una strada nella seconda parte
C’è da chiedersi che fine abbia fatto The Bear guardando le prime puntate della seconda stagione. Che fine abbiano fatto il ritmo indemoniato, quell’idea di raccontare la cucina come qualcosa a metà tra la solita ricerca di eccellenza e la miseria dei locali da strada e quella regia elettrica che sembra far uscire dalla testa del protagonista la sua tensione e metterla nei rumori, nel montaggio e nei dialoghi che si accavallano nelle fasi di preparazione e cucina. Per 4 episodi buoni sui 10 che compongono la seconda stagione (già uscita in patria mentre da noi sarà disponibile dal 16 Agosto su Disney+) non c’è niente di tutto questo.
Da dove si parte
Avevamo lasciato i personaggi con l’idea di aprire un nuovo ristorante e con la scoperta di parte dei soldi necessari. La costruzione e la preparazione all’apertura del The Bear (si chiamerà così il ristorante, ma già lo sapevamo) è quello che occupa tutte le puntate della seconda stagione, che quindi parte da un assunto ottimo: se la precedente ha mostrato la follia di un ex chef da ristorante stellato che cerca di migliorare una bettola, questa mostra la fatica, il dolore e la pena di aprire un ristorante a Chicago, dove (ci tengono molto a mostrarlo di continuo per accrescere la tensione) ogni giorno sembra che un nuovo ristorante fallisca.
Per le prime quattro puntate ci viene proposta però un’altra serie, una fatta di personaggi adorabili e un po’ in difficoltà, che si vogliono bene nonostante i loro difetti, che si aiutano e cercano insieme di fare qualcosa di buono. Chi avrà la forza d’animo di tenere duro approderà ad una quinta puntata ambientata a Copenhagen (Carmine manda la sua brigata a studiare dai suoi amici ognuno in un posto diverso, a Marcus, l’addetto ai dolci, tocca uno stage a Copenhagen) in cui si fa strada una forma di contemplazione che comincia a battere la strada giusta.
Marcus a Copenhagen è in un limbo in cui purificarsi e la cosa capiterà anche agli altri in locali diversi (il più clamoroso sarà l’ultimo, l’intrattabile Richie animato da un desiderio di cambiare commovente). I ristoranti e i cuochi migliori non sono più presentati come furie di urla e tornadi di violenza, ma come monaci arrivati ad una serenità mentale speciale, chi lavora per loro come persone in pace con se stessi proprio attraverso il lavoro di migliorare le serate ai clienti.
La furia
La vera svolta però arriverà nella sesta puntata, un flashback di un’ora in cui assistiamo a una cena di Natale nella famiglia del protagonista Carmine, con il fratello ancora in vita e moltissime guest star (Jamie Lee Curtis, la loro madre, Bob Odenkirk, il patrigno, Gillian Jacobs, la moglie di Richie). È l’anello che congiunge tutto, il racconto della fatica di Carmine, dell’origine delle sue ossessioni e del rapporto malato con il cibo nella sua famiglia disfunzionale.
La preparazione di una cena assurdamente elaborata è un caos e l’occasione (ogni anno) per l’esposizione dell’anaffettività e dell’egoismo della madre, direttamente collegato agli alimenti. Eppure come in tutta la serie questi piatti non sì vedono, raramente osserviamo qualcuno mangiare e gli impiattamenti inquadrati saranno un pugno in dieci episodi. Non è una serie su quello che sì mangia ma su quello che implica cucinare.
Quella cena di Natale nel flashback è paradossale, dotata di un finale così assurdo da sembrare quasi un’allegoria. Da lì la serie prende una forma e comincia a raccontare il rapporto con il cibo come tramite per qualcos’altro, a partire dal momento in cui, per antonomasia, il cibo è il transfer degli affetti e in cui mangiare tutti insieme è il segno dell’unità e delle relazioni, un delirio si impadronisce di tutto intorno ai sette pesci, ricetta italoamericana (come la famiglia) mostruosa, in grado di trasformare la cucina in un campo da battaglia.
Aprire un ristorante
Da lì in poi torna la vecchia serie e a mano a mano che la data fissata per l’apertura del The Bear si avvicina, scandita da cartelli che elencano le settimane mancanti, i demoni di tutti i personaggi tornano a bussare. Aprire un locale diventa una lotta contro tutti, una lotta per migliorare se stessi migliorando un immobile, scavare per trovare quella parte di sé che potrà collaborare con gli altri, che non creerà problemi, che desidera essere migliore. Il rischio è perdere tutto: soldi, voglia, amore per sé, lavoro e aspirazioni. Anche Jeremy Allen White, il protagonista, in quella seconda parte riconquista il suo personaggio, un maledetto che diversamente dai soliti maledetti del cinema, non è drogato, non è insopportabile e non è tarlato da qualcosa ma, al contrario, è eccessivamente focalizzato ed eccessivamente emotivo, in difficoltà nel momento di concentrarsi come dovrebbe sull’obiettivo per il quale vuole dare tutto.
Quell’idea estremamente di moda nel cinema e nella tv quando si parla di cucina, cioè raccontare quel mondo come quello in cui più di tutti si tende alla perfezione, in cui il desiderio di arrivare ed essere eccellenti è più evidente che mai, The Bear prova a distruggerla.
Questa seconda stagione è puro calvinismo e dice il contrario: a uscire male è il problematico protagonista ossessionato da questa perfezione, mentre gli altri, quelli che la stagione passata avevamo trovato come dei lavoratori disillusi e incattiviti di una tavola calda che non chiedeva nulla a loro e nulla gli dava in termini di soddisfazione, guadagnano una forma contagiosa di purificazione nel lavoro, nella pratica e nell’apertura a una dimensione professionale e seria, che infonde nelle loro vite un senso.
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