I casi di indagini per il reato di tortura si stanno affastellando con una velocità sempre più alta: dopo i casi di San Gimignano, Sollicciano e Ferrara, ora l’attenzione è puntata sulle rivolte di marzo e aprile a Santa Maria Capua Vetere e Modena, dove si sono registrati nove decessi motivati con l’overdose di metadone
- Il 2021 si è aperto con il rinvio a giudizio di due agenti e con la condanna di un loro collega a tre anni per le torture avvenute nel 2017 nel carcere di Ferrara. In parallelo, sono stati arrestati tre agenti di polizia penitenziaria e altri sette sono stati messi sotto indagine, tutti accusati di tortura per due episodi nel 2018 e nel 2020 presso il carcere fiorentino di Sollicciano.
- Ci sono anche i casi di Santa Maria Capua Vetere, con circa 400 agenti in tenuta antisommossa che avrebbero messo in atto un’azione ritorsiva contro i detenuti nell’aprile scorso dopo le rivolte di una sezione.
- Questo fatto si è aggiunto a un altro problema, che ha origini più lontane: la progressiva riduzione delle figure trattamentali, come direttori ed educatori, che negli istituti svolgevano un ruolo importante anche in termini di trasparenza e controllo.
C’è un’altra pandemia nelle carceri italiane, che si aggiunge a quella già drammatica dei contagi di Covid-19. Riguarda le torture a cui, da un capo all’altro del paese, sarebbero stati sottoposti sempre più detenuti per mano degli agenti di polizia penitenziaria, quanto meno a vedere l’esplosione di indagini giudiziarie, condanne e misure cautelari degli ultimi tempi.
Il caso zero è stato quello del carcere Rezza di San Gimignano, con le presunte violenze ai danni di un carcerato tunisino con problemi psichici che a novembre hanno portato la magistratura a rinviare a giudizio cinque guardie per lesioni aggravate, falso ideologico, minacce aggravate, abuso di potere e tortura. Nei giorni scorsi l’inchiesta si è allargata e il pm ha chiesto condanne per concorso in tortura per altri dieci agenti.
Si è parlato del primo processo in Italia a vedere imputati membri delle forze dell’ordine per il reato di tortura da quando quest’ultimo è entrato nell’ordinamento italiano del 2017, ma subito sono seguiti altri casi. Il 2021 si è aperto con il rinvio a giudizio di due agenti e con la condanna di un loro collega a tre anni per le torture avvenute nel 2017 nel carcere di Ferrara. In parallelo, sono stati arrestati tre agenti di polizia penitenziaria e altri sette sono stati messi sotto indagine, tutti accusati di tortura per due episodi nel 2018 e nel 2020 presso il carcere fiorentino di Sollicciano. I tre arresti domiciliari sono ora stati tramutati in interdizione dall’incarico per 12 mesi, accogliendo le richieste della difesa.
Violenza per una telefonata
La storia di Sollicciano ha a che fare con un detenuto che nell’aprile scorso avrebbe avuto un alterco con le guardie per una richiesta negata di effettuare una telefonata. Una volta portato nell’ufficio dell’ispettrice, sarebbero iniziate le violenze. Come scrive il giudice, che ricostruisce l’accaduto in un’ordinanza di 80 pagine composta da testimonianze definite «credibili e attendibili», intercettazioni, video di sorveglianza e referti, gli agenti indagati «lo colpivano con vari pugni al collo, al corpo, al costato destro e sulla parte destra della testa».
Ancora, «una volta caduto a terra, continuavano a colpirlo con pugni, schiaffi e calci nelle costole, sotto il braccio, allo stomaco e alla pancia nonché alla schiena, così impedendogli di respirare». In seguito, «due persone montavano sulla sua schiena mentre gli altri continuavano a tirargli calci, uno gli metteva un piede sul collo e infine gli tiravano fuori il braccio che era sotto il suo corpo, ammanettandogli i polsi dietro alla schiena, lo tiravano su in piedi tirandolo per entrambi i polsi e gli sferravano altri due o tre pugni facendolo sanguinare dal naso e dalle labbra».
Durante questi abusi il detenuto si sarebbe urinato addosso, senza che gli sia poi stata data la possibilità di cambiarsi, neanche prima di portarlo in infermeria. Qui gli vengono rilevate diverse lesioni ma il detenuto viene riportato in cella, finché il persistere dei dolori per diversi giorni fa sì che venga portato in ospedale per ulteriori esami. Referto: due costole rotte. Un caso molto simile a quanto sarebbe avvenuto due anni prima, sempre nel carcere di Sollicciano.
Pugni per l’ora d’aria
In quell’occasione tutto sarebbe nato da una discussione tra un detenuto e le guardie sulla fruizione completa dell’ora nel cortile, discussione poi degenerata in violenza. Come scrive il giudice, dopo un cenno dell’ispettrice il detenuto sarebbe stato colpito ripetutamente, un agente in particolare «gli sferrava un pugno colpendolo con forza tra la tempia e la mascella sinistra», un colpo che sarebbe stato poi ripetuto altre due volte. Una volta caduto a terra, secondo il racconto un agente saliva con il ginocchio sopra la schiena del detenuto impedendogli di muoversi e continuando a colpirlo con pugni e schiaffi al volto e alla testa». Una violenza che sarebbe andata avanti per diversi minuti e che, a quanto si legge dal referto medico, ha avuto come esito la perforazione del timpano del detenuto, oltre ad altre lesioni.
«Sollicciano è un contesto difficile, dovrebbe avere una capienza massima di 491 detenuti ma al momento ne ha circa 700. Oltretutto, con la necessità di destinare alcuni locali alla quarantena per i detenuti eventualmente positivi c’è stata un’ulteriore compressione degli spazi», spiega Giuseppe Fanfani, garante della Toscana per i detenuti, che descrive una struttura fatiscente e che avrebbe bisogno di essere completamente ristrutturata.
Una situazione non facile, a cui ora si aggiunge il tema dei presunti abusi. «Il comportamento di queste guardie, per quanto se ne sa oggi, è pesante e da condannare. Atteggiamenti di questo tipo sono lontani da ogni etica civile, ora però bisognerà vedere quanto di questo sarà provato», continua Fanfani. «Va crescendo l’attenzione verso questo tipo di fenomeni, anche perché è stata introdotta la figura criminosa corrispettiva che ha permesso di fare un salto culturale. Di recente abbiamo avuto la vicenda di San Gimignano e il relativo processo che si terrà a Siena: è stato il primo caso in Italia e non sarà certamente l’ultimo».
Casi ripetuti
Le vicende di Sollicciano e di San Gimignano non appaiono in effetti isolate. Nel caso di Ferrara, quella del 14 gennaio a tre anni è stata la prima condanna italiana a un pubblico ufficiale per il reato di tortura, a cui è seguito il rinvio a giudizio di altri suoi due colleghi. Il caso riguarda le violenze subite nel 2017 da un detenuto che sarebbe stato spogliato, ammanettato e picchiato selvaggiamente nella sua cella, anche con l’ausilio di un oggetto contundente di metallo, puntato al collo perché la smettesse di gridare.
Il detenuto sarebbe poi stato lasciato lì legato, fino a che più tardi sarebbe stato notato da un medico nel suo consueto giro della sezione. Ma oltre a questo, ci sono i casi di Santa Maria Capua Vetere, con circa 400 agenti in tenuta antisommossa che avrebbero messo in atto un’azione ritorsiva contro i detenuti nell’aprile scorso dopo le rivolte di una sezione del carcere, una vicenda che ha portato all’indagine per 144 poliziotti con la contestazione, tra gli altri, del reato di tortura.
O quelli del carcere di Modena, con nove decessi avvenuti durante le rivolte di marzo e attribuiti a overdose di metadone, su cui si sta cercando di far luce con nuove indagini, in particolare dopo l’esposto di cinque detenuti che hanno raccontato le violenze che avrebbero subito durante e dopo i disordini, nelle fasi di trasferimento. E poi l’istituto Lo Russo e Cutugno di Torino, dove 21 agenti della polizia penitenziaria sono stati iscritti l’estate scorsa nel registro degli indagati per il reato di tortura, a causa delle presunte sistematiche violenze comminate ai detenuti tra il 2017 e il 2019. «Io un punto così basso per le carceri italiane non l’avevo mai registrato, c’è una situazione generale di sconforto», dice Rita Bernardini, membro del Consiglio generale del Partito radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino. «I detenuti da quasi un anno non fanno più colloqui regolari, sono state sospese le attività scolastiche e lavorative, tutto si limita al lavoro interno. La detenzione è stata ridotta a una situazione di cattività che non ha nemmeno lontanamente il sapore del senso di umanità, della rieducazione».
Questo fatto si è aggiunto a un altro problema, che ha origini più lontane: la progressiva riduzione delle figure trattamentali, come direttori ed educatori, che negli istituti svolgevano un ruolo importante anche in termini di trasparenza e controllo. L’isolamento ulteriore a cui oggi sono sottoposti gli istituti penitenziari a causa delle misure di contenimento della pandemia potrebbe aver avuto un ruolo nella creazione di un terreno più fertile alle violenze.
«Il fenomeno degli abusi riguarda una minoranza degli agenti di polizia penitenziaria ma se ci fosse più controllo da questo punto di vista si riuscirebbe a isolare chi usa un metodo violento. È chiaro che più il carcere è un luogo oscuro e più gli si impedisce un contatto con l’esterno, più questi episodi vengono coperti», continua Bernardini, che invece si immagina il carcere come un luogo di trasparenza, dove il detenuto possa sempre trovare il coraggio di denunciare.
«In questi mesi di clausura si è potuto fare di tutto e di più, come mostrano i fatti recenti. A subire il carcere come luogo di trattamenti inumani e degradanti sono peraltro gli stessi agenti, un contesto di questo tipo facilita certi atteggiamenti di violenza. È necessario riportare il carcere nella legalità costituzionale: è evidente che negli anni passati, ma ancor di più oggi, la Costituzione italiana è rimasta fuori dal sistema penitenziario».
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