- Ecco la prima puntata della nuova inchiesta sostenuta dai lettori di Domani: per approfondire e dare luce al tema del fare (o non fare) figli oggi in Italia
- Se facciamo sempre meno figli, vuol dire che il desiderio di essere genitori è sempre meno diffuso? Non è così: infatti il fertility gap, il divario tra figli desiderati e figli avuti, è sempre più ampio
- Una delle cause del calo delle nascite è l’aumento dei casi di infertilità: una persona su sei ne soffre. E se ne parla troppo poco.
Facciamo sempre meno figli. In tutta Europa, specie in Italia. Allarme culle vuote. Allarme equilibri pensionistici. Allarme demografia. «E vabbè, fare bambini è una scelta personale!», dirà qualcuno: se non ne facciamo, vorrà dire che non ne vogliamo.
Che la gente ha altre priorità, altri desideri: mica si può imporre alle persone di voler diventare genitori. Verissimo. La libertà di scelta è fondamentale. Ma i dati raccontano che in quasi tutti i paesi avanzati le persone desiderano fare due figli, in media. E però poi ne fanno un numero molto inferiore. In Italia, a fronte di quei due desiderati, il numero effettivo di figli per donna è ormai sceso a 1,25.
Si chiama “Fertility gap”. È il divario tra figli desiderati e figli avuti, ed è una potente rappresentazione statistica di quanto la lettura “Se non ne facciamo, vorrà dire che non ne vogliamo” sia fuori fuoco. A volte sì, certo: esistono i “child-free” per scelta. Ma molte persone invece non fanno figli perché non possono, non riescono, perché trovano troppi ostacoli: e restano “child-less”. Nel primo caso c’è una realizzazione personale che passa per la scelta consapevole di non fare figli; nell’altro un senso di frustrazione, e mancanza, e sofferenza nel non aver potuto realizzare il proprio progetto di famiglia.
Un’epidemia invisibile
Una persona su sei, al mondo, soffre di infertilità. L’ha ribadito di recente l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), spiegando in un report che «comprendere l’ampiezza del fenomeno dell’infertilità è essenziale per poter sviluppare interventi appropriati, monitorare l’accesso a trattamenti per la fertilità di qualità, e per limitare i fattori di rischio e le conseguenze dell’infertilità».
Non si può parlare dunque di calo delle nascite senza considerare tutte le persone che vorrebbero figli ma che non riescono a farne per motivi legati alla sfera medicale. Ciascuno di noi può guardarsi intorno e contare.
Il 17 per cento della popolazione in età, come si dice, “fertile”. Può essere un amico, un collega. Un familiare. «Ma no, dai, lo saprei, me l’avrebbe detto!». No. Lo stigma è ancora potente, e tante persone non ne parlano apertamente, tengono nascosti gli esami, le terapie, gli eventuali tentativi di procreazione assistita. Gli aborti spontanei. Il dolore fisico, quello psicologico.
«Ma no, dai, quelli hanno già un figlio, mica possono essere sterili…». Ancora, no. C’è l’infertilità primaria, quando non si riesce a concepire mai: il limite è tracciato, nella definizione scientifica, a 12 mesi di rapporti sessuali completi non protetti senza ottenere una gravidanza.
Ma c’è anche quella secondaria, ancor più invisibile: famiglie con un figlio unico non per scelta, ma perché qualcosa impedisce nuove gravidanze. O anche con più figli – perché l’infertilità secondaria è subdola, può sopraggiungere in ogni momento, e impedire l’arrivo di quel “figlio in più” che si desiderava.
Le soluzioni della medicina
Sfatiamo qualche mito. Solo in un terzo circa dei casi la “responsabilità” dell’infertilità è della donna: in altrettanti casi è dell’uomo, e poi c’è un 25-30 per cento di infertilità “sine causa”. Nelle donne l’infertilità può essere causata da problemi alle ovaie, all’utero, alle tube, al sistema endocrino, oppure a condizioni come menopausa precoce, endometriosi e così via.
Negli uomini molte delle cause ruotano intorno al liquido seminale: quanto si è in grado di produrne e di emetterne, oppure la forma e la performance di velocità degli spermatozoi. Nella maggior parte dei casi si arriva a fare esami specifici solo quando il figlio cercato tarda a venire: così la diagnosi arriva tardi.
Oggi la medicina, per fortuna, aiuta molte persone infertili: inseminazione artificiale e fecondazione in vitro sono le più frequenti procedure di pma, la procreazione medicalmente assistita. Ma la percentuale media di successo è soltanto del 30 per cento. Un sogno che si realizza, per alcuni. Per molti altri, una speranza frustrata e il grande dilemma: fin quanto andare avanti? Quando fermarsi?
L’Oms nel suo report ricorda che tra i diritti umani c’è anche quello di decidere quanti figli fare e quando farli, e sottolinea che l’infertilità può negarne la realizzazione: «Perciò occuparsi di infertilità è un elemento importante per realizzare il diritto degli individui e delle coppie di fondare una famiglia».
Sempre più tardi
L’incremento dell’infertilità registrato negli ultimi decenni dipende anche dalla perdita di fertilità legata all’avanzare dell’età. Questo riguarda specialmente (ma non solo) le donne. Le principali organizzazioni mediche concordano nell’indicare il momento più fertile, per una donna, nella decade tra i venti e i trent’anni, e un calo repentino della fertilità dopo i 35-37. «Ma non è vero, io ne ho avuti due di fila senza problemi alle soglie dei quaranta. E mia cugina è rimasta incinta per sbaglio a 44! Con un solo ovaio funzionante!». Certo, possibile. La statistica però dice che è meno probabile. Che tra i 35 e i 40, e ancor più dopo i 40, restare incinta, riuscire a portare a termine la gravidanza e mettere al mondo un bebè sano è, dati alla mano, più difficile. Più raro.
Nessuno dice che bisognerebbe precipitarsi a fare figli a 25 anni. I figli si dovrebbero fare solo quando (e se) se ne sente il desiderio e si ha voglia di prendersi quella responsabilità. Ma conoscere i fatti della fertilità è fondamentale per poter soppesare i pro e i contro e fare le proprie scelte riproduttive liberamente, a qualsiasi età.
Rispetto alla natalità l’Europa è messa male, e l’Italia peggio. La media registrata per il 2022 dall’Eurostat, l’istituto di statistica europeo, è di 1,53 figli per donna: il Paese che dove si fanno più bambini è la Francia con 1,84. La Germania sta a 1,58, il Regno Unito a 1,61. L’Italia ha uno dei tasso di fecondità peggiori dell’intero continente: peggio del nostro 1,25 fanno solo la Spagna con 1,19 e Malta con 1,13.
Inoltre, l’Italia detiene il primato assoluto dell’età media delle donne al primo figlio: 31 anni e mezzo, la più alta d’Europa. La media europea è 29 anni e sette mesi e in Francia, che come visto è il Paese con i dati più rosei sulla fertilità, è appena sopra i 29. E che sarà mai, dirà il solito qualcuno. Le italiane fanno figli tre anni più tardi delle francesi, mica sarà una tragedia.
Senza fratelli
Non è una tragedia, forse, ma fare figli tardi porta conseguenze. Per esempio il fatto che più tardi si comincia, meno tempo si ha a disposizione per affrontare eventuali problemi nel concepimento e nella gravidanza, e una volta nato un figlio, per metterne in cantiere altri.
Lo scarto di età tra genitori e figli fa sì che gli anni da passare insieme siano sempre meno; che si diventi nonni sempre più tardi, con meno energie per “viversi” i nipoti; e che i bisnonni si stiano praticamente estinguendo. E ancora, andiamo verso una società senza più fratelli, senza più zii. Il tasso di fecondità sotto il 2,1 – il cosiddetto “tasso di sostituzione”: per ogni due genitori che muoiono, due figli li rimpiazzano – vuol dire anche quello.
E dunque qualche domanda bisogna farsela. Se le persone, in Italia, vorrebbero in media due figli. Se i dati dicono che cominciano a (cercare di) farne ad un’età sempre più avanzata, quando ormai è assodato che più si va avanti con gli anni più aumenta la probabilità di affrontare problemi di infertilità. Se alla fine le donne in Italia si ritrovano, in media, a fare praticamente la metà dei figli che desidererebbero. E’ evidente che qualcosa, nel meccanismo, si è inceppato.
Ma non è “qualcosa”, in realtà. E’ una complessa somma di fattori tra loro molto differenti, a volte sovrapposti e intersecati, che crea un ambiente ostile al fare figli. Al tema dell’infertilità si affianca quello della “fertility awareness”, cioè di quanto le persone – specie le più giovani – conoscano (poco) il proprio corpo e siano effettivamente (in)consapevoli di come funziona la fertilità, dei suoi tempi, di cosa può metterla a rischio, di cosa può invece favorirla.
Una minaccia
C’è anche il tema legato al lavoro. Quanto il mercato italiano è accogliente e inclusivo per le persone, o meglio, per le donne con figli? Poco. Già il tasso di occupazione femminile generale è drammaticamente basso, intorno al 50% per la fascia in età lavorativa, venti punti percentuali sotto la media UE. Una donna su due non lavora e quindi non ha un reddito proprio, con conseguenze nefaste sull’autonomia e la possibilità di autodeterminazione.
Se poi si va a scandagliare la situazione delle lavoratrici madri si scopre che danno le dimissioni con frequenza tripla rispetto ai lavoratori padri (quasi 38mila sulle 52mila dimissioni di persone con figli del 2021 secondo l’Ispettorato nazionale del lavoro), e che molto spesso danno come motivazione per queste dimissioni l’impossibilità di conciliare le attività di madri con il lavoro a causa della mancanza di servizi. Motivazione che non ricorre pressoché mai nel caso di dimissioni di padri lavoratori, che anzi si dimettono soprattutto per cambiare azienda. Cioè: gli uomini con figli si dimettono per fare carriera. Le donne con figli si dimettono rinunciando alla loro carriera.
I dati sono tanti. Gender pay gap: le donne guadagnano in media, anche a parità di mansioni, meno degli uomini, quindi se uno dei due genitori deve restare a casa, si sceglie di solito di rinunciare allo stipendio più basso.
Gli stereotipi di genere scoraggiano ancor oggi le donne dall’intraprendere studi tecnico-scientifici, che sono quelli che però garantiscono maggiori opportunità di lavoro e stipendi più alti. Il soffitto di cristallo impedisce alle donne, salvo rare eccezioni, di diventare top manager. In troppe affrontano ancora demansionamenti, mobbing e stop ai loro percorsi di carriera quando rientrano dal congedo maternità; e se per fortuna le dimissioni in bianco sono state rese illegali, e non possono essere più usate per licenziare una lavoratrice che comunica la sua gravidanza, il percorso per chi vuole il pane e le rose, e non si rassegna a una vita dicotomica in cui o sei madre o lavori, è ancora in salita.
I danni del patriarcato
In tutto questo, c’è poi l’altra metà del cielo. Perché i figli, almeno nella maggior parte dei casi, si fanno in due. Gli uomini come categoria hanno beneficiato e tuttora beneficiano del sistema patriarcale della società italiana, di un mercato del lavoro tutto sbilanciato in loro favore, e nella visione stereotipata del lavoro di cura come “una cosa da donne”. Ancor oggi dedicano ai lavori di casa una frazione del tempo delle donne, e in generale il loro contributo alla cura dei bambini, degli anziani e dei familiari non autosufficienti è molto minore di quello delle loro compagne.
Ma bisogna anche ammettere che quegli uomini che invece credono nella cosiddetta “genitorialità condivisa”, nell’essere genitori in maniera paritaria, spartendosi fifty-fifty oneri e onori, diventando interscambiabili per i propri figli e costruendo con loro rapporti intensi basati sulla cura quotidiana, non hanno vita facile.
Fin dalla partenza: il congedo di maternità in Italia dura 5 mesi, e si può estendere fino a 12 con una riduzione dello stipendio. Mentre il congedo di paternità esiste solamente da un decennio, e ci sono volute battaglie e presidi e raccolte di firme per far sì che quell’unico, misero giorno di congedo paternità introdotto nel 2012 come misura sperimentale non venisse cancellato e anzi crescesse fino ad arrivare agli attuali dieci giorni. Ma cosa sono dieci giorni di fronte a cinque mesi? Qui lo stereotipo di genere è benedetto perfino dalla legge: tu padre non conti, non importa che ti occupi del bebè, quello è compito della mamma.
Nuovi padri
Tra l’altro i padri – non essendo l’attesa di un figlio evidente, nel corpo, come quella delle madri – troppo spesso nemmeno lo richiedono, quel congedo di paternità per il quale si è tanto lottato (fino a portare, con Titti di Salvo, Riccarda Zezza e molti altri, alle più alte cariche dello Stato appena prima che scoppiasse la pandemia una raccolta di firme che chiedeva di assicurare il rifinanziamento della misura). Forse perché non lo considerano importante? A volte.
Ma più spesso non prendono il congedo perché si vergognano a chiederlo; perché la cultura patriarcale li incatena al ruolo di maschi breadwinner che non si devono interessare ai cambi di pannolino. Devono restare focalizzati e dimostrare che il fatto di essere diventati padri non li distrarrà – come è normale che accada alle madri! – e non li renderà meno efficienti sul lavoro – di nuovo, quello succede alle madri! Devono confermare il paradosso che numerosi studi hanno ribattezzato “motherhood penalty vs fatherhood bonus”. E cioè che i datori di lavoro tendono a credere che gli uomini con la paternità migliorino, diventando più affidabili; e che invece le donne peggiorino, perdano concentrazione e motivazione – come se il ruolo di madre si mangiasse, nel loro cervello, tutti gli altri. Insomma, un gigantesco stereotipo che danneggia tutti.
Ridurre il fertility gap
In più la mancanza di servizi adeguati, di posti negli asili nido (e con rette ragionevoli), di orari e calendari scolastici compatibili con quelli lavorativi, la crescente difficoltà a trovare servizi di babysitting, il fatto che i nonni talvolta non vivano vicini, e non sempre siano in condizione di occuparsi dei nipoti (o vogliano farlo), sono tutti fattori che scoraggiano la scelta di fare un figlio, o un figlio in più.
Qui la politica può fare la differenza, in un senso o nell’altro. Può incentivare o disincentivare le nascite, può semplificare la vita ai genitori o complicargliela. Può rendere più o meno sostenibile la spesa da affrontare per ogni figlio, venire incontro ai genitori creando una rete di servizi che permetta loro di gestire la famiglia senza dover abbandonare il lavoro… oppure no.
Il caso della Francia insegna: il loro tasso di fecondità – quello che si avvicina di più, in tutta Europa, all’agognato 2 – è il frutto di decenni di politiche di incentivi alla natalità, di servizi all’infanzia diversificati e diffusi sul territorio (gli asili nido di condominio, le maman de jour…) e di possenti sgravi fiscali per le famiglie con figli. Si può fare una verifica empirica in ogni località turistica, mettendosi a origliare la conversazione delle famiglie in vacanza in cui i figli siano tre. Parlano quasi sempre francese, e non è un caso.
In Italia, invece, non abbiamo mai avuto più che qualche “bonus bebè” random, e molte promesse non mantenute. Chi sceglie di far figli si deve arrangiare. E così non sorprende che sempre più coppie scelgano di mettere in sordina il desiderio di diventare genitori.
La scelta individuale diventa poi trend collettivo se sempre più persone rinunciano a fare figli, o cominciano a cercarli alle soglie dei quarant’anni. Senza contare tutti coloro che a priori non hanno scelta, dato che la normativa italiana vieta l’accesso alla pma a chi non sia in una coppia eterosessuale stabile: dunque escludendo di netto coppie lesbiche e donne single.
Partiremo alla scoperta di questo mondo sommerso attraverso una inchiesta a puntate che può essere finanziata direttamente da voi lettori, se lo vorrete. Per capire perché oggi le persone, e specialmente le donne, alla domanda «Quando farai figli?» rispondano «Non certo domani. Forse, un domani…».
© Riproduzione riservata