«I cpr in Albania mi sembrano più una strategia elettorale che una vera soluzione. Uno spreco di risorse» dice l’ammiraglio in congedo. «Oggi l’area Sar è utilizzata dall’Europa esclusivamente come mezzo di esternalizzazione delle frontiere»
Dall’accordo tra Italia e Albania ai rapporti con le milizie libiche, alla prassi dei porti lontani, Sandro Gallinelli, ammiraglio in congedo della Guardia costiera italiana, a lungo impegnato nel coordinamento del soccorso marittimo fino al 2019, analizza con Domani le operazioni in corso per rendere il Mediterraneo un luogo “sicuro”.
«I cpr in Albania mi sembrano più una strategia elettorale che una vera soluzione», dice. Sugli accordi con Tunisia e Libia ricorda la sua esperienza: «La loro guardia costiera non rispondeva quasi mai». E parla di autorità italiane sotto «ricatto» di quelle di Tripoli.
Per il governo il trasferimento dei migranti nei cpr albanesi mira a «contrastare il traffico di esseri umani e accogliere solamente chi ha davvero diritto alla protezione internazionale». Crede che questi obiettivi possano essere raggiunti?
Un vero spreco di risorse, rispetto a quello che si vuole ottenere. L’accordo prevede di trasferire in Albania un numero esiguo di persone, tremila al massimo. Al di là di qualsiasi considerazione sui diritti umanitari, se queste persone non si riescono a rimpatriare nei tempi abbastanza stretti previsti (circa 28 giorni), vanno riportate in Italia. Ma così vengono trasportate come pacchi avanti e indietro.
Hanno già subito traumi importanti e quando saranno portate in Italia ne avranno altri, con tutti i problemi che possono derivare da persone che soffrono. Infine chi parte, soprattutto dalla Libia, ha provato a raggiungere l’Europa già due o tre volte. Che deterrenza può avere per loro il fatto di essere portati in Albania prima di essere eventualmente rimpatriati?
Per trasferire nei cpr albanesi solo adulti maggiorenni, provenienti da paesi d’origine considerati sicuri, le operazioni di identificazione dovrebbero avvenire anche a bordo delle navi italiane. Lo ritiene possibile?
Non sono a conoscenza di alcuna informazione specifica su come si pensa di gestire queste attività, che tipo di navi devono essere utilizzate, se sono navi mercantili noleggiate sotto controllo statale diretto o meno, militari o di polizia. Senz’altro per fare una cosa del genere servono navi di una certa dimensione, non credo quindi che si tratterà delle navi di soccorso. Ma se questo significa far sbarcare le persone in Italia e reimbarcarle su un’altra nave, i controlli potrebbero essere fatti meglio negli hotspot.
In caso contrario, che si possano assicurare a bordo tutte le garanzie previste per le procedure di identificazione e il rispetto dei diritti umani lascia abbastanza perplessi. Nell’operazione Mare Nostrum, a bordo c’erano una componente di polizia e una sanitaria, oltre a quella militare che effettuava i soccorsi. Se questa struttura verrà replicata, comporterà dei costi spropositati, così come eccessive mi sembrano le complessità operative di tutto questo meccanismo.
A maggio la lista dei paesi considerati sicuri è stata ampliata. Cosa cambia nel controllo dei flussi migratori ?
Il problema non è in mare, non nasce in mare, né può essere risolto in mare. Nasce a terra e va risolto a terra, sia dal lato della partenza sia da quello di arrivo. Se in mare c’è un’emergenza, come quasi sempre è, l’unica cosa da fare è soccorrere le persone. L’unica differenza ci può essere se c’è un ingresso illegale organizzato, in una situazione che non sia di emergenza. Allora in quel caso si interviene con un’azione di contrasto pura e semplice.
Di recente, un barcone è stato lasciato alla deriva per oltre 24 ore nella nuova zona di ricerca e soccorso (Sar) tunisina . Istituire zone Sar può creare problemi nella gestione di emergenze ?
Chiunque abbia notizia di una situazione di pericolo in mare deve intervenire, anche se ultimamente gli interventi dell’Italia in zone Sar non sue sono più sporadici. Ogni paese costiero, secondo il diritto internazionale, ha la responsabilità primaria di una propria area per il soccorso in mare. Le zone Sar possono sovrapporsi, ma di per sé questo non dovrebbe comportare problemi.
Questi sorgono solo perché lo Stato che ravvisa un’emergenza è tenuto a intervenire e deve farsi carico dei migranti soccorsi. Per questo a volte si sottovaluta volutamente l’emergenza Sar, omettendo la situazione di pericolo. Se quella, a torto o a ragione, viene classificata come immigrazione irregolare, si ha il diritto di respingere l’imbarcazione dalle proprie coste. Ecco perché anche la guardia costiera tunisina non interviene sempre.
Ricordo situazioni in cui non rispondeva o rifiutava di intervenire se sulle barche non c’erano tunisini. Lo stesso accade anche nella Sar maltese e in quella libica.
Negli ultimi mesi sono stati denunciati nuovi assalti delle milizie libiche nei confronti di migranti in mare . Come sono cambiati dall’accordo del 2017 i rapporti tra Italia e Libia nei soccorsi?
L’istituzione dell’area Sar libica è stata significativa. È stata voluta perché la gestione tutta italiana di quell’area era massacrante, inoltre Malta non interveniva mai, nonostante la sua vicinanza. Per la Libia avere una zona Sar significava poter controllare i pescherecci italiani e stranieri. Poi l’Europa e l’Italia hanno capito di poter utilizzare l’attività Sar per contrastare gli arrivi dei migranti in un’ottica securitaria, anche perché gli obblighi di soccorso venivano sfruttati dai trafficanti.
Oggi l’area Sar è utilizzata dall’Europa come mezzo di esternalizzazione delle frontiere, pur dovendo così soggiacere al ricatto dei libici di lasciare partire i migranti. Ma questa ipocrisia genera ambiguità. I libici che ho incontrato in Tunisia dicevano: «Ma voi dell’Unione europea che volete? Ci dite che non dobbiamo far partire i migranti e ci pagate perché facciamo di tutto per non farli partire o quanto meno per riprenderceli in mare» – con tutto il business criminale che c’è dietro, aggiungo io – «però poi se arriva una nave con bandiera europea ci impedite di fare quello per cui ci pagate».
Durante una visita dei libici in Italia nel 2017, lei aveva incontrato anche Bija, tra i principali trafficanti di esseri umani, ucciso alcuni giorni fa. Che idea si è fatto di quell’incontro?
Quella visita era organizzata dall’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) con il ministero dell’Interno e serviva a mostrare l’organizzazione dell’Italia nella gestione dell’accoglienza dei migranti, oltre a varie attività di cooperazione per migliorare le capacità operative della guardia costiera libica, anche nel rispetto dei diritti umani.
Della visita ero stato informato con breve preavviso e solo dopo venni a sapere che tra loro c’era anche Bija. Questo rientra sempre nel discorso dell’ambigua situazione di cooperazione tra le parti, in cui le autorità italiane, pur sapendo che ci sono dei limiti normativi, sono costrette a soggiacere sotto ricatto alle pretese di quelle libiche.
Quali effetti sta avendo secondo lei la prassi di assegnare porti lontani di sbarco alle ong?
Si è passati da una prassi in cui le navi attendevano in mare la decisione dei porti a una dove vengono immediatamente assegnati, ma il più lontano possibile. Al di là delle giustificazioni formali del governo, è evidente che se le navi impiegano più tempo e risorse per far sbarcare le persone l’intenzione è di ritardare il più possibile il loro ritorno nelle aree Sar e limitare il trasferimento di migranti sul territorio nazionale. Lo stesso decreto Piantedosi serve a contrastare l’attività delle ong, che non è ben vista, nonostante si sappia che le persone che non vengono prese dalle ong arrivano comunque vive o morte in Italia.
L’Enac ha sanzionato le ong che compiono voli di monitoraggio sul Mediterraneo
L’ordinanza dell’Enac dal punto di vista giuridico fa ridere. Quell’ordinanza non impedisce i voli, che infatti continuano. Non sapevano che dire e sono entrati in un campo che non è quello del controllo aereo, ma del soccorso. Sicuramente il loro tentativo di intervenire, che non è il primo, è stato pilotato a livello politico per cercare di fermare l’attività delle ong che sono viste come intralcio alle politiche di esternalizzazione in Europa.
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