Nell’anno accademico appena iniziato, sono 49 gli atenei italiani che offrono un programma di doppia carriera e in quello appena concluso si sono contati 1325 studenti-atleti, il doppio rispetto alla stagione precedente. Un dato molto incoraggiante per liberare il futuro dalla paura di doversi riciclare in un’altra identità o dall’assistenzialismo in cui talvolta rischia di connotarsi l’appartenenza ai gruppi sportivi militari
Lasciare o raddoppiare, questo è il problema. Dire addio agli studi per dedicarsi all’agonismo o al talento sportivo per completare il percorso formativo? Oppure portare avanti entrambi? Per un atleta di alto livello, in passato, duplicare l’impegno era estremamente difficile: non impossibile ma certamente un cammino lastricato di complicazioni specifiche di entrambi i mondi. Da una parte barriere culturali costruite dall’universo accademico sottoforma di scetticismo nel riconoscere lo sforzo applicato allo sport agonistico come qualcosa di diverso dalla perdita di tempo e di risorse altrimenti utilizzabili.
Dal versante sport invece, l’establishment ha marcato difficoltà configurate nella dedizione totale richiesta ai praticanti, strutturando l’agonismo all’insegna di un’iper-calendarizzazione di eventi e una specializzazione sempre più precoce, col risultato di renderlo pressocché incompatibile con un qualsiasi altro impegno organizzato.
Le barriere culturali si sono alimentate, a ragione, delle incertezze e insicurezze che caratterizzano la carriera sportiva e, per molti, ciò è equivalso a imboccare la via dello studio. Invece le difficoltà create dal modello sportivo, hanno di fatto sollecitato l’abbandono della formazione e solleticato l’inseguimento del successo accecando lo sguardo sul fatto che, anche nella migliore delle ipotesi, la carriera sportiva finisce presto lasciando spazio a una lunga vita ancora da vivere. E non a cui sopravvivere.
L’accresciuta consapevolezza sull’importanza di conciliare i due mondi, di collegare la carriera sportiva con il suo post, di estendere il valore della pratica agonistica alla vita accademica prima e lavorativa poi, ha portato considerevoli novità. E oggi, gli atleti non devono più scegliere tra il successo sportivo e quello universitario. Nell’anno accademico appena iniziato, sono 49 gli atenei italiani che offrono un programma di doppia carriera.
Doppia carriera o dual career sta a indicare la possibilità per gli atleti, in questo caso dunque studenti-atleti, di conciliare il percorso agonistico con quello formativo e/o professionale (quindi non solo accademico). Il concetto comprende iniziative volte a limare le difficoltà organizzative che, in passato, portavano a quel bivio da cui nessuno avrebbe voluto passare ma che, purtroppo, arrivava sempre prima. Infatti, negli ultimi decenni si è andata sempre più abbassando l’età in cui la pratica sportiva impatta con il percorso formativo, scesa ormai sotto i 14 anni.
Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) non ha mai frenato le iniziative delle singole Federazioni internazionali per contrastare questa tendenza, anzi. Dal 2010 ha introdotto i Giochi Olimpici Giovanili (rivolti a ragazzi tra i 13 e i 18 anni) che, sebbene motivati dalla diffusione dei valori dell’Olimpismo, di fatto, comportano un medagliere a cui tanti Paesi, il nostro compreso, guardano con ambizione.
La sovrapposizione tra anni dello sviluppo del talento sportivo con quelli della formazione, connota l’esperienza agonistica con due caratteristiche uniche: il disallineamento tra maturità agonistica e personale e l’impossibilità di capitalizzare l’investimento nello sport, per le future fasi della vita. Anche un artista investe negli stessi anni ma senza date di scadenza e, in varie forme, il suo talento potrà esprimerlo sempre.
Per un atleta invece l’invecchiamento fisiologico non concede proroghe: chi riesce a restare nell’ambito sportivo, in altri ruoli (allenatore, dirigente, ecc.) è una minima percentuale e, comunque, per farlo bene l’esperienza da atleta non basta.
A livello europeo il problema è stato affrontato per la prima volta dal network EAS (European Athlet as Student) creato nel 2004 per mettere in contatto istituzioni sportive e non sportive per condividere le esperienze e affrontare sfide comuni. Poi, dopo il Trattato di Lisbona, è stata l’Unione Europea a dedicare attenzione al tema, arrivando, nel 2012, a pubblicare delle linee guida di riferimento per tutti i Paesi membri e sollecitandone l’applicazione.
In Italia, agli inizi del nuovo millennio, abbiamo assistito al nascere dei primi istituti superiori ad indirizzo sportivo e in modalità molto diverse tra loro: dallo stile college al cui interno vengono soddisfatte sia le esigenze di studio che agonistiche (tendenzialmente dedicati allo sci e sport invernali), ai licei che offrono flessibilità didattica lasciando la gestione della carriera sportiva al di fuori delle proprie competenze.
È stata la volta poi dei licei scientifici con una sezione caratterizzata da un curricolo rinforzato in cultura sportiva ma per nulla significativi per il sostegno alla doppia carriera. Per arrivare infine al “progetto didattico studente-atleta di alto livello” con l’assegnazione di un tutor a prescindere dall’istituto frequentato. Solo successivamente, circa un decennio fa, sono arrivate le offerte di doppia carriera a livello universitario: inizialmente circoscritte al corso di studi di scienze motorie e poi, gradatamente, estese a tutti gli altri.
Oggi la differenza tra le varie proposte accademiche è piuttosto marcata e deriva dalla differente interazione tra i tre ambiti su cui il programma di doppia carriera vengono strutturati. Il primo riguarda la definizione di atleta di alto livello, aspetto sempre critico data la varietà con cui sono organizzate le attività delle 48 Federazioni Sportive Nazionali (FSN) e le 13 Discipline Associate (DA).
Il secondo è relativo ai “benefit” concessi che oscillano dalla possibilità di appelli straordinari, alla giustificazione là dove la frequenza è obbligatoria, dal servizio di tutorato a borse di studio. Il terzo riguarda i requisiti accademici che in alcuni casi vengono monitorati e valutati pena l’esclusione dal programma oppure la possibilità di annoverare la propria esperienza agonistica nel diploma supplement (DS) un documento che integra il titolo di studio ufficiale, fornendo la descrizione precisa del percorso formativo e delle competenze acquisite.
Per andare nell’ottica di armonizzare le diverse proposte, Unisport Italia, una rete di atenei che tra vari altri obiettivi legati alla valorizzazione dello sport, in collaborazione con CONI e CUSI (Centro Universitario Sportivo Italiano) nel 2022 ha emanato delle linee guida di riferimento.
Non ci sono molti dati, se non molto frammentati, relativamente al numero di laureati tra gli atleti di alto livello. Sappiamo però che nell’anno accademico appena concluso si sono contati 1325 studenti-atleti, ovvero quasi il doppio rispetto all’anno precedente; è un dato molto incoraggiante per liberare il futuro degli atleti dalla paura di riciclarsi in un’altra identità e dall’assistenzialismo in cui, talvolta, rischia di connotarsi l’appartenenza ai gruppi sportivi militari da parte degli atleti di alto livello di sport individuali.
Durante i Giochi olimpici e paralimpici di Parigi abbiamo assistito a splendide performance atletiche e ascoltato meravigliose perle di saggezza da parte di studenti-atleti: l’equilibrio per guardare allo sport con distacco (quando conti i centesimi che ti separano da una medaglia) o come a un assoluto (quando ti divora la gioventù), passa anche attraverso lo studio e lo sguardo proiettato al domani.
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