Chissà se anche l’esame in architettura del legno, brillantemente superato all’appello accademico di giugno, ha contribuito a perfezionare la condizione fisica e mentale con cui ha prima incantato Roma, vincendo i due ori ai campionati europei e ora Parigi, conquistando l’argento olimpico. È probabile che aver studiato la resistenza dei materiali e la distribuzione del carico per creare strutture stabili, sia servito a Nadia Battocletti per dare un valore aggiunto alla resistenza del suo corpo e alla distribuzione dello sforzo per creare prestazioni formidabili. Ma ciò che certo è che ad attenderla alla fine dell’ancora lunga, speriamo lunghissima, gloriosa carriera da atleta non troverà il vuoto bensì una nuova avventura: far fruttare la laurea in ingegneria e architettura impreziosita dalle qualità di vita (life skills) sviluppate nell’attività agonistica.

La coppia della vela

Anche Ruggero Tita, fresco del secondo oro olimpico deve aver beneficato dei suoi studi. A dire la verità non è un mistero, anzi lo ha dichiarato pubblicamente. Ha detto di aver sempre desiderato studiare ingegneria e in particolare la dinamica dei fluidi per applicarla alla vela, anche se in realtà ha trovato più utile il corso di algoritmi e tecniche di ottimizzazione che usa per l’organizzazione dell’allenamento e la tattica delle regate. E a giudicare dai risultati deve aver studiato decisamente bene.

Anche Caterina Banti, l’altra metà dell’equipaggio dorato Nacra17, laureata con lode in Studi Orientali e capace di padroneggiare ben sei lingue, ha più volte sottolineato quanto l’equilibrio tra studio e sport abbia arricchito la sua vita, fornendole una prospettiva diversa e competenze sinergiche e trasferibili che hanno contribuito al suo successo sia accademico che sportivo. E come loro molti altri campioni e atleti, noti e meno noti si allenano, gareggiano e studiano: preparano il futuro che inizierà dopo la carriera agonistica che, per quanto di successo, finisce presto quando ancora c’è tanta vita davanti.

Cosa è cambiato

Fino a non molto tempo fa era diverso. Poter conciliare sport e studio era un equilibrismo che riusciva a pochi, non per incapacità e nemmeno per svogliatezza ma per quella dedizione esclusiva che caratterizza l’agonismo e che mal si concilia con un qualsiasi altro impegno organizzato. Calendari di gare sempre più lunghi e intensi, allenamenti specifici in luoghi e impianti distanti, specializzazione precoce sono aspetti che hanno spesso, in passato, obbligato una scelta: o studi o fai sport.

La consapevolezza relativamente alle insidie nella vita dell’atleta e della difficoltà di inserirsi nel mercato del lavoro a fine carriera hanno dato vita in Europa, durante i primi anni del nuovo millennio, a una rete di organizzazioni e istituzioni (EAS, European athlet as student) che si occupano di doppia carriera (dual career). Sono nati istituti superiori ad indirizzo sportivo così come programmi universitari in ogni ateneo che, sebbene con caratteristiche lievemente differenti hanno il medesimo fine di sostenere organizzativamente il doppio impegno: ciò significa che gli obiettivi formativi sono gli stessi ma si applica la flessibilità didattica sintetizzabile in verifiche programmate, appelli straordinari, giustificazioni per le assenze e talvolta anche formazione a distanza (che dopo l’era covid non è più un tabù..)

Forse c’è anche il valore della doppia carriera nel contribuire alla serenità e alla maturità sfoggiata dai campioni di oggi come Benedetta Pilato, studente in biologia, quarta ai Giochi per un centesimo: il saper riconoscere l’agonismo come una fase preziosa ma transitoria della vita, che arricchisce ma definisce completamente l’esistenza.

© Riproduzione riservata