Il mondo è troppo interconnesso, anche nel settore alimentare, perché oggi ci sia la possibilità che un paese si nutra in autonomia. Ma in passato il fascismo è stato l’esempio perfetto di una politica disastrosa nascosta dietro a un enorme sforzo di propaganda
L’annuncio dell’ingresso delle truppe russe in territorio ucraino non ha portato con sé solamente scenari di paura di una nuova guerra mondiale, ma anche un concetto, una parola: autarchia. Un’autarchia che ripiega sul fatto di potercela fare con le proprie risorse minerarie e petrolifere ma che, all’inizio, era intesa in senso assai più semplice, diretto: autarchia alimentare.
Fino allo scoppio della guerra ci siamo scordati come il mangiare che troviamo sugli scaffali dei supermercati tutti i giorni sia effettivamente prodotto, arrivi da qualche parte, e non sia atterrato come per incanto nel nostro fortunato lato del mondo.
Ecco, in quel momento l’avvio delle rapidissime sanzioni internazionali ha fatto tornare forte una parola che credevamo ormai sparita. Ma cos’è l’autarchia? Qual è la sua storia? E, soprattutto, ha effettivamente senso parlare di autarchia alimentare nel 2024? La risposta ce la darà la storia.
Con autarchia si intende, Treccani alla mano, la «condizione di un paese che mira all’autosufficienza economica, nell’obiettivo di produrre sul territorio nazionale i beni che consuma o utilizza, limitando gli scambi con l’estero». È un pensiero che vede la luce nell’Ottocento con filosofi economici tedeschi come Johann Gottlieb Fichte.
L’autarchia totale è possibile solo in teoria, perché è pressoché impossibile azzerare del tutto i contatti economici con altri paesi.
Scarsi risultati
L’autarchia alimentare, però, essendo a un livello economico filosoficamente più basilare, è potenzialmente possibile ed è anche avvenuta. Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito a embarghi, ma l’autarchia completa è qualcosa di completamente diverso, legato a doppio filo con una propaganda totale, permeata nei cartelloni dei governi ma anche nelle arti.
È per questo che proprio il fascismo fu il primo regime ad attuarla, con un enorme sforzo di propaganda e piuttosto disastroso sul piano della riuscita. «Comunemente l’autarchia fascista si fa iniziare a partire dalle sanzioni da parte della Società delle Nazioni dopo l’invasione dell’Etiopia nel 1935» dice Matteo Ghirighini, direttore del museo di cucina Garum a Roma.
«In realtà la propaganda del mangiare solo prodotti italiani è precedente: la ritroviamo già in Cucina Futurista di Filippo Tommaso Marinetti». Così come la famosa battaglia del grano, che risale addirittura nel 1925. «L’avversione di Marinetti per la pasta» continua Ghirighini, «non è troppo la rottura con il passatismo, ma il problema reale della mancanza di grano per fare pasta.
Il grano serviva per il pane, il re degli alimenti». È però con il 1935 che in effetti si inizia a parlare di politica autarchica. A partire da questo momento – e fino al 1936, poi subentrerà l’autarchia di guerra – gli italiani erano chiamati a mangiare solo quello che era italiano e, diremmo noi, a chilometro zero. Propaganda e necessità patria erano gli ingredienti di questa fase autarchica che ha visto il fiorire di decine di opuscoli di ricette, di pubblicità, di riviste vicine alla causa del mangiare italiano a tutti i costi. Il boccone era poco, era amaro, ma bisognava farlo per l’Italia.
Le ricette
È in questo periodo che nascono preparazioni oggi osannate anche da chef stellati come la“pasta risottata. «La pasta risottata (cioè cotta con poca acqua direttamente con il condimento, ndr) era una ricetta necessaria» spiega Ghirighini. «Si salvava combustibile, la pasta era più gonfia saziandoti prima e più ricca di nutrienti per la presenza di amidi». La ricetta è apparsa sul numero della Cucina Italiana del mese immediatamente successivo alle sanzioni. Ma è anche il periodo in cui i ricettari, regalati al popolo o venduti per due spicci, riportavano esplicitamente ricette completamente vegetariane (ufficialmente perché la verdura è sana, in pratica perché non c’era carne a disposizione) o osannavano la bontà delle patate crude. «La patata cruda era un classico anche del 1919, quando l’Italia, anche se vincitrice, era economicamente devastata. Nel ricettario Alimentazione Economica del 1919 si apprezzavano due belle fette di patate con sangue animale dentro, come un sandwich». Notevole è notare come la macchina della propaganda fascista associasse queste patate crude al tartufo, per indorare la pillola.
La propaganda, attraverso grafiche e linguaggi diretti riusciva a penetrare nel profondo della società. La cucina è il riassunto di tutte le scienze sociali di un periodo: la tavola rivela la preferenza per un piatto piuttosto che per un altro sulla base di necessità o ricchezze che permeano un dato periodo.
«Di autarchia in senso lato» dice Ghirighini, «ne è piena la storia del sapiens. Mangiare quello che si ha a disposizione è una forma di autarchia, perché in tempi di magra ci si arrangia come si può». Il fascismo non è stato l’unico ad attuare una politica autarchica, semplicemente in altre occasioni è capitato che fosse una necessità non detta, che non necessitava di propaganda. In una mostra della più grande collezione di menu storici (che avrà luogo dal 5 al 7 aprile proprio da Garum a Roma) ci saranno per esempio a confronto i menu dell’esercito prussiano entrato a Versailles nel 1870 con tutte le leccornie del caso e quelli del popolo, riccamente decorati con animali esotici in riferimento al fatto che i parigini, assediati, non avendo più niente da mangiare, iniziarono a mangiarsi gli animali dello zoo, oltre a topi e cani. Se quindi la cucina è lo specchio popolare e preciso di un’epoca e riassume gli usi sociali del periodo, si può parlare ancora di autarchia oggi? «Studiando la storia, io non penso che possano esistere di nuovo, in occidente perlomeno, casi di autarchia politica.
Le economie, specie quelle alimentari, anche se non lo sembrano, sono estremamente interconnesse. Si possono avere delle sanzioni che limitano alcuni prodotti o ingredienti, ma ci sarà sempre un modo di fare affluire certi prodotti, essenziali o meno che siano» conclude Ghirighini. Certo, la storia ci ha insegnato che non tutto si può predire. Ma l’evoluzione umana in senso capitalistico e individualistico indica che la mancanza di mercato segnerebbe la fine del mondo. E il cibo è, in fondo, da sempre, il collante che tiene a bada le insurrezioni.
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