Dalle indagini di più procure emerge il tentativo di far entrare fondi dall’estero. Così i clan cercano di rilevare le aziende in crisi finanziaria a causa della pandemia
- Un progetto ambizioso e molto sospetto. Trasferire in Italia nel clou della pandemia di aprile mezzo miliardo di euro. Denaro depositato all’estero e nella disponibilità di un gruppo di imprenditori che avrebbero voluto importare questa montagna di soldi con un scopo filantropico: aiutare le regioni ostaggio del Covid-19.
- Segnali che però hanno subito attirato l’attenzione di procure e investigatori e sono stati approfonditi in inchieste top secret.
- Il rischio, infatti, è che le aziende, messe in crisi dalla pandemia, diventino facili prede delle organizzazioni criminali che hanno liquidità in abbondanza.
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Prisma / AGF
Un progetto ambizioso e molto sospetto. Trasferire in Italia nel clou della pandemia di aprile mezzo miliardo di euro. Denaro depositato all’estero e nella disponibilità di un gruppo di imprenditori che avrebbero voluto importare questa montagna di soldi con un scopo filantropico: aiutare le regioni ostaggio del Covid-19.
Segnali che però hanno subito attirato l’attenzione di procure e investigatori e sono stati approfonditi in inchieste top secret. Il rischio, infatti, è che le aziende, messe in crisi dalla pandemia, diventino facili prede delle organizzazioni criminali che hanno liquidità in abbondanza.
Dalla partita nessuna mafia è esclusa: in prima fila camorra, ‘ndrangheta, Cosa nostra siciliana. Mafie che già in “tempi di pace” si sono dimostrate abili nell’acquisire imprese in difficoltà. Uno schema rodato che con il caos del Covid è destinato ad avere ancora maggiore successo. Come confermano le indagini, in corso soprattutto al centro nord, grazie alle quali scopriamo che l’emergenza si è trasformata nell’occasione perfetta per far rientrare capitali dall’origine misteriosa.
Piove mezzo miliardo
La provincia trevigiana è l’ambientazione di una storia che inizia nei primi giorni di aprile negli uffici di una filiale di banca desertificati dal lockdown. È qui che si presenta il titolare di una piccola e sconosciuta società, molto intraprendente ma con molti precedenti nel suo curriculum. Chiede di potere aprire un conto corrente intestato alla sua azienda, una richiesta apparentemente normale se non fosse per le ragioni che lo muovono: è in attesa di un trasferimento di 90 milioni di euro da una società londinese.
A corredo della domanda presenta alla banca una lettera in cui il direttore di questa azienza inglese scrive di aver stanziato il finanziamento milionario per «fronteggiare l’emergenza Covid-19». La dichiarazione è firmata da un italiano e dovrebbe tranquillizzare gli impiegati dell’istituto, che invece capiscono che qualcosa non va e si rifiutano di aprire il conto.
A questo punto parte la segnalazione all’Unità di informazione finanziaria, l’antiriciclaggio di Banca d’Italia, che analizzando l’operazione dei 90 milioni la ricollega a una serie di altri tentativi tutti bloccati da altre filiali, sempre nella regione Veneto.
Il dato preoccupante è che la protagonista è sempre della stessa società londinese amministrata da italiani, collegati ad ambienti criminali, anche mafiosi. Insomma quei milioni fermati nel trevigiano, sono solo una parte del più ampio progetto di importare in Italia mezzo miliardo di euro schermandolo con la giustificazione dell’emergenza Covid-19 e di aiutare le regioni in difficoltà.
In questo ambizioso progetto troviamo coinvolte figure già note perché legate a numerose inchieste del passato che vanno dal traffico di droga a quello di armi fino ai rifiuti tossici in Somalia negli anni Novanta. Le informazioni sono sul tavolo di più procure antimafia per capire l’origine di quel denaro.
Chi indaga non si è fermato una volta che le operazioni di rientro dei capitali dall’Inghilterra sono state bloccate dalle banche. C’è da capire se siano i risparmi di due vite oppure rientrino nel “tesoro nero” che imprese e organizzazioni criminali hanno all’estero e che viaggia attraverso i canali offshore dei paradisi fiscali. Sono provviste lecite o parte di quei 142 miliardi (dati del dipartimento della fiscalità dell’Unione europea) depositati all’estero e sfuggiti ai radar del fisco italiano?
Denaro che potrebbe tornare utile ai clan per fare shopping di aziende sull’orlo del fallimento, distrutte dalla crisi economica provocata dalla pandemia. La direzione di Trieste di Banca d’Italia ha presentato recentemente un documento sull’andamento dell’economia nel nord est nel primo semestre 2020: la prima ondata ha prodotto una perdita di circa 12mila posti di lavoro, a essere maggiormente colpiti alberghi e ristoranti con un crollo nelle presenze del 61 per cento tra gennaio e luglio. Una depressione economica che diventa terreno fertile per chi ha mezzo miliardo all’estero pronto all’uso.
Inchieste in tutta Italia
La procura nazionale antimafia guidata da Federico Cafiero de Raho sta coordinando il monitoraggio di questa strategia criminale che punta a rilevare imprese affossate dalla pandemia. Ma gli occhi sono puntati anche sui comparti economici che il virus non ha frenato: la filiera agro-alimentare, l’approvvigionamento di farmaci e di materiale sanitario, il trasporto su gomma, i servizi funebri, le imprese di pulizia, la sanificazione e lo smaltimento di rifiuti.
Settori da sempre presidiati dalle cosche con imprese che ora possono sfruttare l’alta richiesta di alcuni servizi, come la fornitura di mascherine e dispositivi di protezione vari. In questo ambito tornano protagonisti anche i boss di Gomorra, della provincia di Caserta, riuniti nel clan dei Casalesi.
L’emergenza Covid-19 insomma, come si legge in un report inedito della direzione centrale di polizia criminale del ministero dell’Interno, è l’occasione ideale per «la speculazione su alcuni prodotti sanitari, dalle mascherine ai disinfettanti, e consente margini di profitto non molto diversi da quelli degli stupefacenti soprattutto se si considera che questi sono abbinati a un rischio giudiziario tendente allo zero».
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