Scatolette: da espediente delle guerre napoleoniche e del colonialismo a oggetto comune. Non va dimenticato però come i popoli colonizzati non sono solo passivi ricettori di idee sviluppate nelle metropoli: un esempio in lattina, il ruolo preponderante in alcune cucine post-coloniali del latte condensato
Per un picnic o un viaggio in macchina, una vacanza in barca o in tenda, o anche una breve sosta in una casa al mare o in campagna – poche cose sono comuni quanto le scatolette, di cui si può fare scorta a qualunque spaccio o supermercato e assicurarsi così bevande, legumi, verdure, zuppe, snack, condimenti, nonché pesce o carne — che possono conservarsi anche per anni.
Visto il loro totale far parte del nostro quotidiano, che le rende pressoché invisibili, è divertente ripercorrerne la storia, e scoprire quanto poco la loro nascita avesse a che vedere con scampagnate fra amici o il fornire ingredienti rapidi per una spaghettata al pomodoro o una zuppa di lenticchie last minute: anzi, le origini delle scatolette vanno trovate nelle guerre napoleoniche, e il loro successo, nell’espansione coloniale dell’Ottocento. Nulla di tanto pregevole, dunque, e per fortuna che sono poi intervenuti picnic e cene al volo più amichevoli che non le guerre e l’imperialismo.
Metodo Appert
Il dato di partenza è che la necessità di conservare il cibo è vecchia come l’umanità: nel corso dei secoli si è provato a prolungare la freschezza di ciò di cui ci nutriamo mettendolo sotto sale, sott’olio, sott’aceto, sotto zucchero, essiccandolo, affumicandolo e via dicendo – ma questi metodi impegnativi hanno risolto solo una parte del problema.
I primi passi avanti per una maggiore comprensione su come mantenere le proprietà degli alimenti senza rischiare che deperissero avvennero nel Settecento, e proprio con un biologo italiano, Lazzaro Spallanzani, che intuì che la cottura in acqua bollente per circa un’ora in bottiglie di vetro ben chiuse avrebbe impedito il deperimento del cibo (i principi grazie ai quali ciò era possibile vennero codificati solo cento anni più tardi, da Louis Pasteur). Spallanzani poi si interessò di altre cose, lasciando solo qualche appunto sui suoi esperimenti, e fu il francese Nicolas Appert a occuparsi con costanza della questione.
Talmente tanto, che il suo metodo di conservazione, che prevede la cottura per più di un’ora in acqua bollente di diversi di cibi in bottiglie di vetro sigillate con tappi di sughero, filo metallico e ceralacca, viene chiamata “appertizzazione”. Appert era un cuoco, e un inventore, che rispose ad un concorso indetto dell’esercito francese del 1795 per ideare modi per conservare i cibi e renderli così più facilmente trasportabili.
Dopo anni di ricerche, mentre le truppe di Napoleone che stavano mettendo a ferro e fuoco l’Europa avevano bisogno di essere rifocillate non solo con le razzie nelle terre conquistate (ed in particolare se pensiamo che le lunghe guerre avevano reso più difficile il trasporto ed il commercio alimentare, come vediamo anche oggi con le difficoltà anche in questo campo in conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina), ecco che nel 1809 Appert vince il premio di 12mila franchi e pubblica le sue ricerche. Grande passo in avanti per la trasportabilità a lungo termine del cibo, ma la conservazione in vetro, specie per chi va in guerra, era solo parzialmente risolutiva. Appert però non pensava solo alle truppe napoleoniche, e si mise in affari, aprendo la prima fabbrica di conserve.
Svolta britannica
Furono gli eterni rivali della Francia, i britannici, a compiere il passaggio successivo appena un anno dopo, mettendo il cibo reso privo di batteri tramite il calore in scatole di ferro battuto (dato che per l’apriscatole si dovrà aspettare la metà del secolo, l’apertura di una di queste scatolette doveva essere piuttosto interessante, dal momento che avveniva fra martelli e picozze e una buona dose di determinazione), che non rischiavano di rompersi strada facendo. E’ da lì, dal 1810, che inizia davvero la storia delle scatolette, che restarono da allora in poi sovrane indiscusse della facilità del trasporto alimentare a lunga conservazione.
Le scatolette, da lì in poi, si sono diffuse sempre più su scala mondiale, e troviamo alcune interessanti particolarità locali. L’Italia si dedica inizialmente ad inscatolare pomodori, contribuendo a rendere questo frutto uno dei tratti distintivi della cucina italiana nel mondo.
Come scrive Luca Cesari nel suo recentissimo Storia della Pizza (Il Saggiatore), «I suoi esordi si possono individuare con la fondazione a Torino della Cirio, nel 1856, e con la sua espansione nel mezzogiorno dove, dopo l’Unità d’Italia, apre alcuni stabilimenti, convertendo alla coltivazione di prodotti da inscatolare vaste aree agricole abbandonate». In Argentina, nel 1871, venne sviluppato un metodo sicuro per inscatolare la carne. In Canada, poco prima, era stata la volta dei salmoni.
Nel frattempo, le lattine avevano fatto il loro debutto nella buona società nel corso della Grande Esibizione Coloniale del 1851, che si tenne a Londra, poi, una volta che le lattine cominciarono ad essere fatte di metalli più sottili, ecco che nel 1958, dagli Stati Uniti, venne inventato l’oggetto-svolta: l’apriscatole.
Il ruolo del colonialismo
Ora facilmente apribili e trasportabili, le lattine giocheranno anche un ruolo non indifferente nelle guerre boere (1880-1881 e 1899-1902) che portarono al dominio britannico in Sudafrica. Proprio alla fine della prima Guerra Boera, gli inscatolatori britannici riuscirono a compiere un decisivo passo avanti tecnologico, laccando l’interno delle scatolette, impedendo l’arrugginimento dell’interno.
Il ruolo della colonizzazione nella popolarizzazione delle scatolette è però ancora più significativo. Da un lato, infatti, le varie potenze coloniali, nell’Ottocento ancora fermamente convinte della “missione civilizzatrice” che toccava alle popolazioni bianche, fornivano agli amministratori coloniali in giro per le terre conquistate un “sapore di casa” come il roastbeef o alcune verdure in gelatina: cibi considerati più igienici e maggiormente adatti agli evoluti stomaci dei colonizzatori, in contrasto con le pietanze speziate e inusuali delle terre asiatiche, africane o americane in cui gli europei si erano installati.
Una classica rivisitazione in chiave romantica dell’Impero: ecco che la natura era domata, messa in scatola, e civilizzata, grazie all’inventiva tecnologica dei figli più illustri delle nazioni colonizzatrici.
Ricezione non passiva
Ma i benefici economici non si fermavano lì: come dimostrato già dalla Grande Esibizione Coloniale del 1851, ecco le ananas in scatola, disponibili non più solo ai tropici ma a Londra, Washington, Parigi, e dovunque altro il commercio europeo potesse arrivare. Ad Amsterdam, da dove era controllata l’Indonesia, era possibile acquistare il classico riso fritto dell’arcipelago, il nasi goreng, in una bella lattina, con tanto di scena coloniale sopra: una famiglia olandese che mangiava mentre veniva servita da domestici indonesiani.
Non va dimenticato però come i popoli colonizzati non sono solo passivi ricettori di idee sviluppate nelle metropoli: un esempio in lattina, il ruolo preponderante in alcune cucine post-coloniali del latte condensato. Inventato nel 1856 dal newyorkese Gail Borden e trasportato da inglesi, olandesi e francesi in tutte le colonie per mantenere intatta la dipendenza nutritiva dai latticini, questo prodotto è divenuto ormai uno degli ingredienti più quotidiani per colazioni e dessert che siano indiani, malesi o vietnamiti.
Ma questa tecnologia che nel corso di poco più di due secoli tanto ha fatto per assoggettare altre popolazioni è oggi prodotta e utilizzata ovunque, lasciando che la sua estrema versatilità, capace di rendere trasportabili tanto le bevande gassate che il cibo per gatti, in tutto il mondo – dall’Europa al Giappone, dall’Africa al Brasile.
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