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Secondo avvocati e operatori legali, il Decreto Cutro rischia di compromettere anche le vite di coloro che avevano fatto richiesta di protezione speciale prima che la riforma entrasse in vigore.
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Il problema è capire cosa significa aver già presentato la domanda di protezione: chi ha incontrato problemi di accesso all'ufficio rischia infatti di rimanere escluso dalla protezione speciale.
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Le storie di migranti in attesa da anni di ricevere un permesso di soggiorno in Italia e che da tempo avevano fatto domanda di protezione speciale, mostrano la difficoltà quotidiana di chi vive senza documenti.
Adriana è arrivata in Italia dall’Albania alcuni anni fa, quando era incinta. I suoi figli sono cresciuti a Roma, dove ha seguito due corsi di italiano e lavorato come badante, ma ora che il suo permesso di soggiorno provvisorio è scaduto, sono rimasti tutti senza documenti.
A gennaio, prima dell’entrata in vigore del Decreto Cutro, su consiglio dell’avvocato che la assiste, ha fatto richiesta di protezione speciale. Dopo mesi di attesa, messaggi via pec inviati e ore di coda per chiedere notizie della sua pratica senza ricevere risposta, martedì scorso Adriana è tornata in questura prima di accompagnare i bambini a scuola: «Mi hanno detto che non possono darmi la protezione speciale perché questo permesso non si fa più, non mi hanno voluto scrivere nulla nero su bianco e mi hanno mandata via. Lo stesso è capitato a una ragazza messicana in coda con me».
Vite distrutte
Senza permesso, Adriana non può spostarsi liberamente, lavorare (se non in nero), fare richiesta di residenza o andare da un medico, e lo stesso vale per i suoi figli. Da quando è in Italia nessun dottore l’ha mai visitata, perché il permesso per assistenza di minori che aveva non glielo permetteva. Solo l’anno scorso è riuscita a portare i suoi figli per la prima volta dal pediatra: “L’Asl non voleva iscrivere mio figlio perché non aveva il codice fiscale e mia figlia, che ora ha 2 anni, perché non aveva la residenza”.
La protezione speciale rappresentava per Adriana, e per chi come lei è da anni in Italia senza un permesso regolare stabile, una via d’accesso ai diritti fondamentali. Il Decreto Cutro rischia però di compromettere anche le vite di coloro che avevano fatto richiesta di protezione prima che la riforma entrasse in vigore. Da quando i legami familiari, l’inserimento sociale e la durata del soggiorno dei migranti in Italia non costituiscono più degli indici da valutare per ottenere la protezione speciale, le persone che hanno fatto ricorso per il suo riconoscimento si sono viste negare questo permesso dalla questura, anche se il tribunale aveva ordinato di rilasciarlo. Come nel caso di Umar, in Italia dal 2011 dopo aver viaggiato dalla Nigeria attraverso la Libia. Dopo mesi senza ricevere risposta, ora anche lui rischia di rimanere senza documenti fino a data da destinarsi.
«Il tribunale mi aveva detto che avevo diritto alla protezione, ma la questura ha detto il contrario. Ho provato a chiedere spiegazioni ma lì nessuno sa mai niente, c’è sempre tanta confusione e spesso ci trattano male. Anche se forse hanno ragione, perché c’è sempre tanta gente per chiedere il permesso di soggiorno. Ti fanno mettere una firma su un foglio, ma quando hai finito di fare la coda ti dicono che hai fatto quella sbagliata e ti mandano da un’altra parte», dice Umar, che ha appena concluso il suo turno di pulizie negli uffici del centro città, prima di andare a seguire il corso di italiano che ha iniziato da poco. “Ora non so cosa fare, ma non posso tornare indietro. Vorrei solo poter lavorare normalmente qui. A me Roma piace e ci vorrei restare”.
Come Umar, anche chi ha ricevuto l'indicazione di recarsi in questura per formalizzare la propria richiesta rischia di perdere l’accesso alla protezione speciale, spiega l’avvocata Cleo Maria Feoli, che assiste migranti e richiedenti asilo: «Il problema è capire cosa significa aver già presentato la domanda di protezione: chi ha dato le impronte in questura non dovrebbe avere problemi, ma chi aveva inviato a mezzo Pec una richiesta di formalizzazione della domanda e ha incontrato problemi di accesso all'ufficio rischia di rimanere escluso dalla protezione speciale». Lo stesso problema si era creato con le richieste di asilo e di protezione umanitaria dopo il Decreto Salvini, quando i tribunali hanno riconosciuto che le richieste inviate prima dell’entrata in vigore del decreto erano da considerarsi pre-riforma.
Senza assistenza medica
A Bari, un’operatrice legale che segue madri con figli in Italia dagli anni ‘90 racconta che le sue assistite sono spaventate. Alcune di queste donne, invecchiate in Italia senza documenti, hanno sviluppato delle fragilità di salute per le quali difficilmente possono ricevere assistenza medica. In attesa da anni di ricevere un riscontro sulle proprie domande di permesso di soggiorno, avevano riposto fiducia nella protezione speciale, ma la questura non risponde da mesi ai loro solleciti.
«C’erano già una serie di problematiche a monte - spiega l'operatrice - ma la riforma complica ulteriormente la situazione. Pur non potendo agire retroattivamente, infatti, la riforma influenza le valutazioni delle commissioni sulle domande di protezione speciale e ci si aspetta un peggioramento anche sulle richieste già depositate».
Se già prima del Decreto Cutro, insomma, le richieste di protezione non venivano valutate sempre coerentemente con la norma, d’ora in avanti, secondo operatori e avvocati, è probabile che l’interpretazione della normativa sarà ancora più restrittiva. Le persone direttamente coinvolte, spesso in situazioni di irregolarità, dovranno così aspettare ancora a lungo prima di poter esercitare i propri diritti.
Attese di anni
Per alcuni però la vita senza documenti è insostenibile. Syed è bengalese, ha 25 anni ed è in Italia da 6. È arrivato su un barcone dalla Libia, dove lavorava come benzinaio e lavava le auto, ma se chiedeva di essere pagato veniva picchiato. «Nel viaggio in mare pensavo di morire, non avevamo cibo e mi girava la testa, dormivo poco, vomitavo e svenivo Ma tutti quando compiono 18 anni lasciano il Bangladesh, perché non si può studiare o lavorare lì e con i soldi dei parenti si va a cercare lavoro fuori. Se non si trova nulla, si va in un altro paese ancora», racconta.
Del centro di accoglienza vicino a Bologna dove è stato portato, Syed ricorda il freddo nelle ossa e la fame: «Eravamo 25 persone senza riscaldamento e acqua, non ci davano cibo e dormivamo tutti insieme in tre o quattro letti. Così sono scappato a Roma, da solo». Qui Syed ha fatto richiesta per il passaporto senza mai riceverlo e la comunità bengalese lo ha aiutato a trovare un lavoro in pizzeria, dove lo pagavano in nero e poco, finché un suo amico gli ha detto di raggiungerlo a Padova.
Dopo che la sua domanda di asilo è stata rigettata, un permesso di soggiorno provvisorio gli ha consentito di essere assunto regolarmente come cameriere e di dividere un affitto con altre cinque persone. Da quando il permesso è scaduto però, Syed ha paura di uscire per strada e di perdere il lavoro: «Ho fatto domanda di protezione speciale perché mi hanno detto che dà più diritti, ma aspetto da quasi un anno una risposta dalla questura. Senza documenti non posso fare nulla. Ogni giorno mi alzo e vado a lavorare, torno a casa e ricomincio, vorrei andare a trovare la mia famiglia, ma non posso fare nient’altro. Non ho una residenza, non posso aprire un conto o andare dal medico. Sono triste e stanco».
In Italia Syed ha sviluppato un problema a un occhio: è arrossato e pulsa ma non può essere visitato. Anche quando ha avuto il Covid ed è rimasto a casa per settimane senza mutua, non ha potuto ricevere assistenza. Con i soldi si aggiusta, senza un conto in banca però alcuni datori di lavoro gli hanno detto che non potevano pagarlo e non riesce a inviare soldi ai suoi parenti rimasti in Bangladesh.
L’avvocato che lo assiste teme che la sua richiesta di protezione speciale possa essere ignorata. Da quando la sua domanda di asilo è stata rifiutata, anche Syed infatti è seguito da un legale che gli ha permesso di fare ricorso in cassazione per la protezione internazionale, ma non tutti possono contare su questo tipo di supporto. I muri che la questura erge, spiega l’avvocato, costringono i richiedenti a rivolgersi a dei legali per avere più probabilità di ottenere un permesso o anche solo per essere più considerati al momento della formalizzazione della domanda in questura.
«In queste fasi amministrative però - prosegue - il legale va pagato, perché non è ancora possibile chiedere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Ciò avviene in una fase in cui i richiedenti dovrebbero invece poter gestirsi da soli». Questa situazione crea una differenza di trattamento tra chi, dopo aver tentato più volte di entrare in questura, si è rivolto a un legale e chi no. Questi ultimi richiedenti però difficilmente riusciranno a dimostrare di aver tentato di formalizzare la propria domanda, restando così esclusi dalla protezione speciale.
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