- Nel giorno in cui Giovanni Falcone è saltato in aria non ce l'ha fatta più: «Ho detto basta, quel sabato ho detto basta con i cadaveri di Palermo: a Capaci non ci sono riuscita». E nemmeno cinquantasei giorni dopo, in via Mariano D'Amelio, l'autobomba di Paolo Borsellino. Non c'è una sola foto di Letizia di quell'estate di trent'anni fa.
- Una foto del 1972, in bianco e nero, mani nodose che coprono un viso, Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati di Milano: «L'ho incontrato lì un giorno ma ce l'avevo già dentro e non me lo sono fatto scappare più».
- Lo scoop: quella foto che ritrae insieme Giulio Andreotti con l’esattore mafioso Nino Salvo.
Palermo è sempre stata dentro di lei e lei è sempre stata dentro Palermo. Letizia è Palermo, prima e dopo. Più di una volta ha provato a mettere distanza, non c'è mai riuscita. È sempre tornata, Palermo era come la sua pelle. Negli ultimi anni attraversava faticosamente la città e, un po' sperduta, chiedeva agli amici: «Ditemi come posso far capire agli altri cos'è la mafia di oggi, io non riesco più a riconoscerla, non so più come fotografarla». Si disperava davanti a una mafia nascosta, quasi impalpabile.
Negli ultimi anni si infastidiva anche quando le ricordavano che era una grande fotografa: «È solo una parte di me la fotografia, io sono anche altro, molto altro». Ma poi sorridendo aggiungeva: «Adesso che sono vecchia posso anche non avere più pudori: sì, sono una maestra di fotografia».
Era generosamente e magnificamente sottosopra Letizia Battaglia. Se n'è andata a ottantasette anni. Letizia e i suoi capelli rossi, Letizia e i suoi zoccoli, Letizia e le sue gonne colorate. Lei e Palermo, un solo impasto.
Il destino di un nome
L'ho vista per la prima volta quasi mezzo secolo fa, forse era il 1977 o forse il 1978, tra le stamberghe e i vicoli bui dell'Albergheria che si arrampicano verso le palme che ornano i giardini di Palazzo dei Normanni, il parlamento siciliano.
Era in mezzo a un nugolo di bambini e di bambine che correvano e s'inseguivano. «Letizia, Letizia», gridavano per attirare la sua attenzione e intanto si mettevano in posa: «Solo per te Letizia, solo per te».
Me l'hanno presentata come “la Battaglia” (destino di un nome), l'avrei conosciuta meglio qualche tempo dopo alla redazione del giornale L'Ora. Lei era già una fotografa quasi famosa, io solo un cronista alle prime armi che aveva appena incontrato una città spaventosa.
Ogni mattina si usciva insieme per raccontare l'ultimo omicidio. Letizia che s'inginocchiava accanto al cadavere, scattava e scattava e ancora scattava, la sigaretta sempre fra le labbra, lo stupore e l'ammirazione degli uomini che erano lì intorno – poliziotti, carabinieri, medici legali, becchini – a vedere quella donna che si muoveva con audacia sulla scena del crimine. Mezz'ora dopo era già in via Meccio, nella camera oscura del suo laboratorio, a stampare. E poi di corsa al giornale, a rovesciare le foto ancora bagnate di acido sulle scrivanie del capocronista.
Non ha voluto fotografare Capaci
Ha fotografato la morte di Palermo dai primi Anni Settanta sino alle stragi, sino al 23 maggio del 1992. Nel giorno in cui Giovanni Falcone è saltato in aria non ce l'ha fatta più: «Ho detto basta, quel sabato di primavera ho detto basta con i cadaveri di Palermo: sull'autostrada per Capaci non ci sono riuscita». E nemmeno cinquantasei giorni dopo, in via Mariano D'Amelio, l'autobomba di Paolo Borsellino. Non c'è una sola foto di Letizia di quell'estate di trent'anni fa.
Nella sua ultima casa palermitana ci siamo visti qualche tempo fa e parlato dei vivi e dei morti che hanno segnato la nostra Palermo. Una casa riparo dopo un'esistenza tumultuosa. Il suo appartamento al secondo piano, sullo stesso pianerottolo l'abitazione del fratello Salvatore con gli odori delle due cucine che verso mezzogiorno si confondono. All'attico la casa di sua figlia Patrizia, al superattico quella della figlia Angela che, dopo un viaggio in India, come nome ha preso Shobha. Grande fotografa anche lei.
Da Letizia, su un tavolino del salone, erano sparse alcune foto. Una era di Giovanni Falcone, con la pistola in mano mentre s’infilava nel bunker del Palazzo di Giustizia circondato dai suoi angeli custodi. Un’altra di Francesco Accordino, un poliziotto della sezione Omicidi che per noi era più di un amico. Uno dei sopravvissuti di Palermo.
C'era anche la foto del giorno dell'Epifania del 1980, via Libertà, il delitto del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella. Il 6 gennaio Letizia stava passando per caso da quella strada dopo un caffè alla Cuba di villa Sperlinga, due auto di traverso, una piccola folla di curiosi, Piersanti Mattarella ancora vivo con suo fratello Sergio, allora professore universitario e oggi capo dello stato, che lo tiene fra le braccia e cerca di estrarlo dall'abitacolo di una berlina. Il romanzo nero e il riscatto di Palermo raccolti in uno scatto.
Uno dei tanti. «Ho fotografato in tutto il mondo ma fuori da Palermo le foto mi vengono diverse. Qui c'è qualcosa che mi appartiene, o forse sono io che le appartengo. Ho fotografato la cronaca di questa città, io non ho fatto arte ma un lavoro, duro, anche spietato».
L’incontro con Pasolini nel 1972
La casa di Letizia e le sue scatole di scarpe. E dentro quelle scatole tante vite. Una foto del 1972, in bianco e nero, mani nodose che coprono un viso, Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati di Milano: «L'ho incontrato lì un giorno ma ce l'avevo già dentro e non me lo sono fatto scappare più». Era a Milano ma, come sempre, Palermo la stava aspettando ancora.
Perché Letizia è cresciuta laggiù, in una città che ha amato e a volte detestato sin da bambina. Fra ansie e ribellioni, paure. Le elementari alle Ancelle, le alunne con i guanti bianchi, gli inchini, i figli della grassa borghesia palermitana, la divisa che le dà la scuola mentre le altre compagne l'avevano su misura cucite dalla sarta. La sua diversità.
Anche da ragazzina, da adolescente. Si è sposata a sedici anni. Perché Letizia, perché così giovane? «Come perché? Perché mi fai questa domanda? Ho semplicemente incontrato un uomo che mi amava e mi offriva il mondo». Si chiamava Franco. «Mi avevano immaginato come una delle belle ed eleganti signore di Palermo ma io volevo altro».
Lascia il marito e lascia la Sicilia, va lavorare come cronista a Milano. È la fine degli Anni Sessanta. Scrive per Le Ore e poi per Abc, settimanale anticlericale e anticonformista, qualche pezzo di politica e tante immagini osé per quell'epoca, i primi seni nudi su carta patinata, la battaglia per il divorzio. «Con l'articolo mi chiedevano anche le foto, altrimenti non me lo pubblicavano..». Così Letizia Battaglia è diventata Letizia Battaglia fotografa. Palermo, Milano, ancora Palermo.
Sangue e funerali
Il sangue per le strade. E dopo il sangue i funerali. Quelli di mafia erano pomposi, esagerati, solenni come quelli di stato. «Sbrigati, devi venire con me a Passo di Rigano», mi dice una mattina Letizia. Passo di Rigano, una borgata di Palermo, il giorno prima avevano fatto fuori a colpi di kalashnikov uno dei capi della Cosa Nostra siciliana, Salvatore “Totuccio” Inzerillo, aristocrazia mafiosa, cugini da questa e dall’altra parte dell’Atlantico, un pezzo di famiglia sull’isola e l’altro a Cherry Hills dove i primi Inzerillo erano emigrati nel ‘56.
La chiesetta di via Castellana è strapiena. Centinaia di “picciotti” venuti da ogni quartiere, migliaia di corone di fiori, segretari e portaborse di ministri e di onorevoli della Regione Siciliana in rappresentanza dei loro padroni sulle prime panche, una limousine nera dalla quale all’improvviso scende la vedova Filippa Spatola circondata dai parenti americani appena sbarcati a Palermo. Sembra una scena de Il Padrino.
Letizia comincia a fotografare. La vedova, i picciotti, gli americani. Arrivano subito. Prima le concedono di stare lì («Però fuori dalla chiesa, per rispetto») e senza scattare, poi provano a cacciarla, poi ancora la trascinano via. Ma L’Ora di quel pomeriggio, in prima pagina ha una grande foto dell’ultimo saluto al boss che sognava di far diventare Palermo come Atlantic City.
La “primavera” palermitana
Fotografa ma anche volontaria alla «Real Casa dei Matti», l’ospedale psichiatrico di via Pindemonte. Poi la scuola di teatro al Teatès di Michele Perriera, il giornale della sera nella stagione della guerra e dei delitti eccellenti, il potere politico criminale di Palermo ha nuovi re e Palermo sprofonda nell'abisso.
Letizia Battaglia è testimone, le sue foto fanno il giro del mondo. Premi, riconoscimenti internazionali, un nuovo amore. Anche lui si chiama Franco. Anche lui, Zecchin, è fotografo di talento.
Ma “immortalare“ Palermo non basta più a Letizia. Vuole cambiare la sua città, almeno vuole provarci. L'incontro con il sindaco Leoluca Orlando, la primavera palermitana con le giunte comunali ”colorate” che abbattono l'impero democristiano dei Vito Ciancimino e dei Salvo Lima, Letizia è assessore alla “Vivibilità Urbana”, verde e giardini.
Confesserà: «E’ stato il periodo più bello della mia vita, più bello della fotografia, mi sentivo cittadina e quindi più che solo una fotografa. Ma io non facevo politica, io amministravo, facevo cose vere, vedevo un angolo sporco e lo facevo pulire, piantavo un albero, sistemavo un prato». Da quel momento, con Leoluca Orlando, non si lasceranno più.
E dopo il Comune la Regione siciliana. Deputata. Tanto straordinaria l'avventura in municipio e tanto deludente e sofferta quella successiva: «Esperienza decisamente inutile alla regione, non facevo niente, gli altri non mi facevano sapere mai nulla. Quando ero alla Regione tutti mi chiamavano onorevole e io d'istinto alzavo il dito medio della mano e rispondevo a chi si rivolgeva a me in quel modo: "Tié, onorevole lo dici a chi sai tu”. Mi dovevano chiamare solo Letizia..».
Letizia e Palermo, sempre una cosa sola. Anche fatta di carta. Sua la casa editrice "Edizioni della Battaglia”, fra gli autori Roberto Alajmo e Roberta Torre. Poi fonda la rivista "Mezzocielo”, il femminismo, è insieme a Carla Aleo Nero, Silvia Ferraris, Simona Mafai e Rosanna Pirajno.
Il buio e i riconoscimenti internazionali
Nell'estate delle stragi una lunga depressione e un volo di solo andata per Parigi. Passa mesi seduta al tavolino di un bistrò, sola, disperata. «Senza parlare con nessuno, senza bere perché io non ho mai bevuto».
È stremata, abbattuta da Palermo e dai suoi orrori. E proprio quando lei è in fondo a un pozzo nero gli altri la onorano, cominciano ad arrivare i premi più prestigiosi da ogni parte. Dalla Francia, dalla Germania, da Londra.
È anche la prima donna europea a vincere negli Stati Uniti la borsa Eugene Smith. È la consacrazione. Torna un'altra volta a Palermo. L'ultima. Continua ad amarla, ma è sempre più addolorata. Prova rabbia per tutto quello che è accaduto alla sua città. Ma ci sta, sempre viva, appassionata.
«Mi emoziono sempre camminando nei suoi vicoli..una statua della Madonna, un Gesù di pietra, gli odori, una finestra sbilenca..». E poi, poi quella mafia che non riesce a vedere più. Lei che ha fotografato i capi della Cosa Nostra stesi per terra, come Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.
Lei che ha fotografato quegli altri rinchiusi nelle gabbie dell'aula bunker dell'Ucciardone, come Luciano Liggio e Michele Greco. La sua Palermo che cambia ancora una volta ma che in fondo resta sempre la stessa.
Lo scoop su Andreotti e i Salvo
Le riconoscono i suoi scoop anche dopo molti anni, a volte li fa senza saperlo. Perché è nel posto giusto e nel momento giusto. E con uno sguardo che altri non hanno. Lo ricorda il giornalista Nino Giaramidaro, in un articolo su ”L'Ora edizione straordinaria”, un felicissimo libro scritto da tre generazioni di cronisti che ricostruiscono cinquant'anni di cronache.
Intervista Letizia e gli chiede delle sue foto che hanno fatto storia: «Un giorno del 1979 Giulio Andreotti viene a Palermo per una campagna elettorale, erano le europee. Al cinema Nazionale c'era lui che parlava, Vito Ciancimino e tutti gli altri. Fotografai Andreotti vicino a Ciancimino, perché per me la foto era quella, perché si diceva che Ciancimino non fosse più nella Democrazia Cristiana e invece era lì. Vado allo studio, stampo le foto. Mi dicono però che devo andare andare anche all'hotel Zagarella, fuori Palermo, a Santa Flavia, perché lì stanno banchettando Andreotti e i suoi amici. Ci vado, consegno alcune foto, ma il giornale non pubblica niente».
Letizia si dimentica presto di quel giorno. Ma, quasi quindici anni dopo, alla porta del suo studio bussano una mezza dozzina di funzionari della Direzione Investigativa Antimafia. Cosa volevano? «Mi dicono: dobbiamo perquisire il tuo archivio, cercavano schede sulla Democrazia Cristiana, su Andreotti, su Salvo Lima. Io consegnai tutto. Erano arrivati alle 11 del mattino e se ne andarono via di sera. Dopo venti giorni mi chiamano dei colleghi e mi annunciano: Letizia hai fatto uno scoop grandissimo..».
Nell'archivio della Battaglia c'era la prova che da molti mesi non riuscivano a trovare i magistrati della procura della repubblica di Gian Carlo Caselli e un esercito di investigatori: un rapporto di vicinanza fra il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e l'uomo più potente della Sicilia, Nino Salvo, esattore, imprenditore agricolo, finanziatore della corrente politica di Salvo Lima e uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra trapanese.
Andreotti aveva sempre negato di conoscerlo, quella foto di Letizia dimostrava il contrario. Erano insieme, sorridenti uno accanto all'altro. Come andò a finire? «Quel negativo non l'ho mai più avuto indietro, un giorno i carabinieri mi hanno restituito una stampina brutta e tutta storta, ma a quel punto non mi interessava più niente, mi piaceva pensare che la mia foto era servita a qualcosa di importante, a far incriminare Giulio Andreotti».
Le bambine dei cortili
Dalla mafia alle bambine. È un altro ritorno. Fotografa, fotografa ancora a Palermo ma adesso è vita e non è più morte. «Le cerco, le rincorro, ce ne sono di bellissime, in loro mi ritrovo io stessa bambina».
Lo faceva già tanto tempo prima, molto famosa l'immagine della bambina “con il pallone” che gioca in uno dei cortili della città vecchia. Ma non è quella la foto alla quale Letizia è più affezionata. Gliene piaceva un'altra, di un bambino però: «Quella che ricordodi più l'ho scattata in Scozia. C'era un ragazzino tutto solo, abbracciato ad una scatola su cui aveva disegnato il volto di un altro ragazzino. Aveva una scatola per amico».
Un paio di anni fa insegue altre bambine e c'è una polemica che la ferisce. Ne ritrae due, sullo sfondo una Lamborghini gialla in bella mostra a piazza Pretoria, che i palermitani chiamano piazza della Vergogna per le parti intime esibite dalle statue di marmo. È la campagna pubblicitaria “With Italy, for Italy” della casa automobilistica.
Il popolo del web si scatena contro Letizia, l'accusano di avere ceduto al luogo comune sessista “donne e motori”. Si sente umiliata. Reagisce: «Da alcuni giorni la mia vita è cambiata, Lolite, le hanno chiamate Lolite, ma quello è lo sguardo di voi uomini, voi maschi. Le avete guardate le mie fotografie, le avete capite? Le bambine guardano me, le bambine guardano il mare e non le automobili, non sculettano davanti alla macchina gialla, sono con me, sono insieme a me».
Fa anche l'attrice Letizia. Interpreta sé stessa nel film di Franco Maresco La mafia non è più quella di una volta. È ironica, fiduciosa nel futuro nonostante il copione (molto realistico) del regista. Nei primi giorni del 2022 girano anche un film interamente dedicato a lei, una serie tv per la Rai firmata da Roberto Andò. C'è la malattia ma Letizia quando può continua a viaggiare, riceve a casa troupe televisive, si concede alle telecamere.
L'ultima intervista è di qualche settimana fa, rilasciata ad Alessia Candito sull'edizione palermitana di Repubblica. Parla di tutto. Della sua Palermo, dei suoi ottantasette anni, del suo matrimonio, delle donne e delle bambine. Rimescola ricordi e sentimenti, a tratti è tenera, a tratti con qualche asprezza.
Così era fatta Letizia. Ha mai pensato di fare il sindaco di Palermo, le chiede la Candito? «No, io avrei voluto fare il sindaco di isola delle Femmine, naturalmente per via del nome e di ciò che evoca. Ma ormai sono vecchia, vent'anni fa forse sì».
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