La fotografa “della mafia” dice a Domani: «È così senza risposta questa cosa. Non vorrei neanche che qualcuno me ne chiedesse. Qualsiasi risposta sarebbe… mi sento male al pensiero che pure io debba… mi sembra di essere un Salvini che dice minchiate». Ma aggiunge: «Il mondo deve vedere». Di fronte alla tragedia, nell’atto di fotografare c’è «grande rispetto, grande dolore, grande voglia di lottare per un mondo migliore»
«È così senza risposta questa cosa. Non vorrei neanche che qualcuno me ne chiedesse. Qualsiasi risposta sarebbe… mi sento male al pensiero che pure io debba… mi sembra di essere un Salvini che dice minchiate», dice a Domani Letizia Battaglia al telefono. Ieri sera Oscar Camps, fondatore della Ong Open Arms, ha pubblicato le fotografie dei corpi di due bambini e di una donna con una coperta, morti, sulle spiagge di Zuwara in Libia, abbandonati lì per tre giorni. Probabilmente vittime di un naufragio. «Sono scioccato per l’orrore della situazione» ha scritto. Poi la constatazione: «Non importa a nessuno» e ancora l’hashtag: «Ogni vita conta».
Battaglia, che nella sua lunga carriera ha fotografato l’orrore delle vittime di mafia, come le bambine della sua Palermo prese a giocare alla Cala, fa fatica a parlare dell’argomento. «Non riesco, non riesco», ma dice ancora con fermezza: «Il mondo deve vedere, basta finti moralismi, cerchiamo che i bambini non muoiano, in questo ci dobbiamo impegnare. Anzi dobbiamo fare vedere tutto quello che succede».
Il giorno dopo il tweet di Camps, di fronte alla tragedia, è nato il dibattito sul fatto che i corpi fossero o no stati abbandonati per tre giorni. Ma Camps ha ribadito pubblicando le foto delle piccole vittime che giacciono un giorno dietro l’altro sempre più coperte dalla sabbia: vittime abbandonate. Indipendentemente dai giorni «la cosa più importante è che fossero morti».
Per Cecilia Strada, ex presidente di Emergency, non è giusto vedere un’immagine di questo tipo: «Non la pubblicherò, perché mi dà la nausea. Perché se fosse mio figlio, morto, non lo vorrei in pasto al mondo». Oltre a questo c’è anche l’amarezza di chi fa obiezioni perché non crede: «Non la pubblicherò perché ho già passato del tempo, nella mia vita, a rispondere a quelli che "Eh ma è una foto finta, un bambolotto, guarda com'è bianco!", spiegando che è quello che l'acqua fa a un corpo, quando ci anneghi dentro».
Si chiede infine se abbia realmente senso renderle ancora pubbliche: «L'ho già fatto, e non lo voglio fare più. Non la pubblicherò perché io non lo so, sinceramente non lo so, se ha senso pubblicare queste foto: colpiscono chi vorrebbe affondare i barconi, fanno cambiare idea? O forse colpiscono solo - e fanno male - chi è già sensibile? Non la pubblico, ma è successo. Succede. Succederà».
Fotografia e lotta
Per Letizia Battaglia fotografare è una forma di lotta. Fisso nella sua memoria Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, fotografato da Nilufer Demir nel 2015: «È una ragazza, la adoro per quello che ha fatto».
Demir all’epoca aveva raccontato: «In un primo momento, quando ho visto quel bimbo, ero pietrificata» ma «l’unica cosa che potevo fare era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti».
L’autore delle foto, dice Battaglia, non conta: «Non so chi abbia fotografato questi bambini libici, non ha importanza: bisogna che il mondo sappia invece di voltare la faccia dall’altro lato», e ha continuato con voce appassionata: «Sono figli nostri, sono figli di tutti: siamo tutti figli, tutti padri e tutti uguali».
Quando la fotografa si trova davanti alla morte, ha raccontato, prova «grande rispetto, grande dolore, grande voglia di lottare per un mondo migliore». La cronista non arretra: «Grande dolore, ma devo registrare, devo fotografare, devo consegnare, perché il mondo deve vedere. E possibilmente deve vedere queste immagini con tutto l’amore che io ci metto dentro». E poi vuole chiudere: «Ho tentato… mi manca la voce».
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