Licia Rognini Pinelli è morta lunedì mattina a Milano: aveva 96 anni, li aveva compiuti il 5 gennaio. La sua è una pagina di storia che l’Italia non dovrebbe mai dimenticare, nonostante siano trascorsi quasi 55 anni da quei giorni di dicembre del 1969 che videro consumarsi prima la “madre di tutte le stragi” neofasciste, quella alla Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana (17 morti e 88 feriti) e poi una vicenda giudiziaria lunga decenni, che ha segnato la storia del paese.

Subito vennero infatti la criminalizzazione del mondo anarchico e la “mostrificazione” di Pietro Valpreda, la cui colpevolezza venne dichiarata in diretta televisiva addirittura da un giovanissimo Bruno Vespa. Poi una serie di processi che si conclusero solo negli anni Duemila, senza condanne, ma con la dichiarazione tardiva (entrambi erano già stati assolti negli anni Ottanta) della responsabilità anche per quella strage di Franco Freda, Giovanni Ventura e della cellula veneta di Ordine Nuovo.

La 18esima vittima

La bomba di piazza Fontana fece anche, indirettamente, un diciottesimo morto: il ferroviere Pino Pinelli, marito di Licia, che nella notte tra il 15 e il 16 dicembre precipitò dal quarto piano della questura di Milano, mentre veniva interrogato nell’ufficio del commissario Luigi Calabresi. Che cosa avvenne precisamente quella notte è un mistero che la giustizia non ha mai chiarito fino in fondo.

Di certo c’è che Pinelli era stato trattenuto illegalmente per tre giorni e tre notti in questura, che a un certo punto i poliziotti gli contestarono attentati precedenti (in particolare quelli sui treni dell’agosto precedente), che gli venne detto che Valpreda aveva già parlato. L’allora questore Marcello Guida, in quella notte concitata, disse alla stampa che proprio a quel punto Pinelli si era gettato dalla finestra, gridando «è la fine dell’anarchia».

Ma non era così. Era una solenne balla, pronunciata in tempi in cui alla polizia si doveva credere senza fiatare. E fu proprio la rocambolesca morte di Pinelli a costituire il classico sassolino in un ingranaggio che, se lasciato a sé stesso e ai suoi “manovratori”, avrebbe portato al successo la colossale macchinazione anti anarchica.

Che cosa avvenne davvero quella notte in questura non lo si saprà mai. La versione a cui pervenne il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, ed è quella consacrata dalla giustizia, fu quella del cosiddetto “malore attivo” del ferroviere. Ma è una versione a cui non credette nessuno. La morte di Pinelli aveva già portato a un processo contro la rivista Lotta Continua, mosso da una querela presentata dallo stesso Calabresi, vittima di una feroce campagna stampa: sulla sua presenza o meno all’interno dell’ufficio al momento del volo di Pinelli, l’Italia si è divisa per decenni.

Con una tremenda nemesi, quel processo diventò ben presto un processo alla polizia e allo stesso Calabresi, che si concluse anzitempo con la ricusazione del Tribunale da parte della difesa del commissario, passato neppure troppo inopinatamente – per i tempi e il clima di allora - dal ruolo di accusatore a quello di accusato.

La ricerca della verità

Licia Pinelli non si è mai arresa di fronte a quel verdetto paradossale. È noto ciò che pensò quando al processo Calabresi-Lotta Continua assistette alla testimonianza del brigadiere Vito Panessa, stretto collaboratore di Calabresi: «È stato il momento in cui più ho avvertito che eravamo vicini alla verità». Panessa arrivò a dire di aver cercato di salvare Pinelli afferrandolo per una scarpa, che – disse – gli restò in mano. Peccato che entrambe fossero ai piedi di Pinelli quattro piani più sotto.

Nel 2009, il presidente Napolitano invitò al Quirinale sia Licia Pinelli sia l’altra vedova Gemma Capra, la moglie del commissario Calabresi, pure lui vittima il 17 maggio 1972 di un attentato che la giustizia italiana ha attribuito proprio a Lotta Continua. Avvenne il 9 maggio, nel Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo. E sei anni più tardi, ultimo atto del proprio settennato, ancora Napolitano la nominò commendatore al merito della Repubblica (come anche la vedova Calabresi).

Sempre riservatissima, in tanti anni in cui la giustizia non è stata data a lei e alle figlie Silvia e Claudia, Licia Pinelli ha accuratamente evitato ogni polemica. Ma la sua voce, per chi lo voleva, si è sempre fatta sentire. Come nel libro “Una storia quasi soltanto mia”, scritto ancora nel 1982 assieme al giornalista Piero Scaramucci e più volte ristampato: «Io parlo di giustizia, e si intende sempre la giustizia del tribunale. Ma non basta, la questione della giustizia per me è una cosa più ampia. Avere giustizia è che tutti sappiano la verità».

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