Qualche settimana fa c’è stato un altro tentativo di ritornare su questa ipotesi, che è priva di qualsiasi fondamento storico e giudiziario. Ma anche i documenti usati per provare a rilanciarla sono inutili se non addirittura controproducenti nell’ottica di dimostrare l’indimostrabile
Il segreto sta nello spostare la linea del traguardo sempre un po’ più in là. Oppure, detta diversamente, nell’indicare in un nuovo elemento prima mai ipotizzato la “colpa” dell’assenza di ciò che, invece, per anni era stato postulato come sicuramente presente. E in grado di svelare l’indicibile. È così che da anni si dà fiato alla cosiddetta “pista palestinese” per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980 (la più grave della storia repubblicana, 85 morti e oltre 200 feriti), soprattutto attraverso articoli di stampa e saggistica, oltre a puntuali rilanci politici da parte della destra.
E nonostante le risultanze storiche e giudiziarie l’abbiano di continuo affossata: dalle condanne definitive di Mambro e Fioravanti (1995) a quella di Ciavardini (2007), fino alle più recenti di Gilberto Cavallini dei Nar e Paolo Bellini di Avanguardia Nazionale in primo e secondo grado. Il risultato è che ora, in un manuale di studio per aspiranti giornalisti, la strage di Bologna è stata inserita in un paragrafo in cui si parla delle Brigate Rosse. E senza citarne la matrice neofascista.
Il tentativo più recente di rianimare la pista palestinese risale a qualche settimana fa. Ed è passato giustamente quasi inosservato. A rilanciare l’incessante lavorìo che muove da precisi profili social è stato suo malgrado il quotidiano il Giornale, attraverso un ampio servizio che – così nelle intenzioni – avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di documenti dei servizi segreti (il Sismi, quello militare) in grado di avvalorare appunto la responsabilità palestinese per la bomba di Bologna.
Documenti, questa l’ipotesi espressa però in termini più che assiomatici, che sarebbero stati scientemente a lungo occultati perché rivelatori in qualche modo di una corresponsabilità dello stato, che attraverso il cosiddetto “lodo Moro” avrebbe consentito all’Olp e ai suoi epigoni di scorrazzare impuniti nel nostro paese, armi e bagagli al seguito, in cambio dell’intangibilità del territorio italiano da attentati.
Assioma mai dimostrato
Tale patto segreto, questo è l’assioma non dimostrato, sarebbe stato violato da parte italiana attraverso il casuale sequestro di due lanciamissili, nel novembre del 1979 a Ortona, destinati a raggiungere via mare il Medio Oriente e a essere utilizzati contro obiettivi israeliani. E dal contestuale arresto dei tre militanti dell’Autonomia romana che si erano prestati al trasporto, oltre a quello di un esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina di stanza a Bologna, che aveva chiesto la loro collaborazione. Di qui la conclusione, senza riscontri ma categorica nonostante la selva di condizionali, di un attentato alla stazione come rappresaglia.
È un’ipotesi che non ha fondamento giudiziario. Al di là dell'archiviazione nove anni fa della relativa inchiesta da parte della Procura di Bologna, dopo un buon decennio di indagini anche attraverso rogatorie internazionali, neppure i documenti del Sismi (relativi a comunicazioni con il proprio centro di Beirut) allora non disponibili e oggi invece desecretati hanno portato alcun elemento in tale direzione. Da tempo consultabili all’Archivio Centrale dello stato, sono stati analizzati per la prima volta da Domani ancora l’11 marzo del 2023. E dimostrano che la vicenda di Ortona nulla ha a che fare con la bomba alla stazione. Tanto che tre mesi più tardi, nel processo d’appello a Cavallini (udienza del 14 giugno 2023), anche la Procura generale ha avuto buon gioco nel demolire carte alla mano ogni ipotetico collegamento. Ed ecco così lo “spostamento” del traguardo di cui si diceva all’inizio: la lamentata assenza, cioè, di carte del Sismi nel periodo che va dal 2 luglio al 23 settembre 1980. Con la sottotesi-corollario: sono stati fatti sparire, perché raccontano appunto l’indicibile.
Si tratta di una tesi che, in un paese intossicato da decenni di dietrologie e cospirazionismi i più vari (e invece refrattario alla faticosa lettura di corpose sentenze), piace e fa presa. Soprattutto da destra gli sforzi si sono così concentrati sulla denuncia di questo presunto “buco” documentale, nonostante nel carteggio ve ne siano altri ancora più lunghi, sottolineando l’esistenza di “manine” e volontà (della politica o dell’intelligence, peggio ancora di entrambe) tutto fuorché trasparenti. Paradossalmente, però, l’articolo del Giornale di qualche settimana fa dimostra l’esatto contrario. Ma qui occorre andare con ordine. Partendo appunto dai documenti pubblicati dal quotidiano milanese.
Lo scambio
Si tratta di uno scambio di informative che avviene nell’agosto del 1980, con documenti in partenza da Roma (Seconda Divisione Sismi, terza sezione) sabato 9 con destinatario il capocentro del servizio a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, che risponde giovedì 21. Si tratta di documenti in cui comunque sono presenti omissis, ma il cui senso è tutto sommato chiaro: il Sismi chiede al proprio agente di attivarsi con tutte le raccomandazioni del caso («agire estrema cautela») per avere informazioni relative alla presenza di estremisti di destra italiani in campi di addestramento del Partito falangista libanese.
Le risposte di Giovannone non offrono particolari elementi di chiarificazione, ma non è questo il punto: da tempo si sa infatti che la cosiddetta “pista libanese” è stata creata ad arte dallo stesso Sismi per sviare le indagini, costringendo la magistratura bolognese a defatiganti approfondimenti che finirono per non portare a nulla, ottenendo però lo scopo di paralizzare a lungo gli inquirenti, mettendoli di fronte a un vorticoso mix di elementi veri, verosimili e falsi, con l’effetto (classico dei depistaggi bene orchestrati) di far “rovinare” anche gli elementi fondati (il coinvolgimento di neofascisti italiani) assieme a tutto il resto. Un esempio di scuola è la celebre velina del Sid all’indomani di piazza Fontana in cui si citava sì la centrale eversiva di estrema destra Aginter Presse, qualificando però come anarchico il suo creatore, cioè il militare francese (e terrorista dell’Oas, oltre a mille altre cose) Yves Guérin-Sérac.
Torniamo però ai quattro documenti diffusi nelle scorse settimane. Per dire che si riferiscono non alla vicenda di Ortona, cavallo di battaglia degli anti palestinesi a prescindere, bensì alla pista libanese, cioè proprio al primo depistaggio internazionale. Si tratta di una vicenda che è stata sviscerata compiutamente nelle varie sentenze sulla strage di Bologna fin dalla prima d’assise del 1988, transitando poi in tutte le successive, comprese le più recenti riguardanti Cavallini e Bellini: il capitolo dei depistaggi è infatti da sempre tra i più esplorati dai magistrati bolognesi. E non c’è alcun mistero che riguardi quei documenti presentati come «carte di cui non era mai saputo nulla» e ora finalmente «affiorate». Provengono infatti dalla desecretazione avviata dalla Direttiva Renzi. Si tratta in particolare, così fa sapere lo stesso Archivio centrale dello Stato, di una serie archivistica (“7: ‘Strage di Bologna - 2 agosto 1980’ (1980-1985) / 1: (1980)” versata ancora nel 2017 e subito messa in consultazione.
Domande mal poste
Da sette anni dunque quei quattro documenti dei Sismi, assieme a innumerevoli altri relativi alla strage di Bologna, sono lì all’Acs e nessuno se li era filati: d’altra parte il loro contenuto informativo era di nessun interesse, se non addirittura controproducente nell’ottica di dimostrare l’indimostrabile. Ora però qualcuno si è accorto che la loro datazione ricadeva nel “buco” documentale di cui si è detto e ha pensato bene di rispolverarli, segnalando tale circostanza al Giornale, ma incurante del fatto che nulla aggiungono alla vicenda, men che meno in chiave anti palestinese: certificano infatti, al massimo, che pochi giorni dopo l’attentato alla stazione anche il Sismi attivò i propri canali per cercare di assumere informazioni. E sarebbe stato sorprendente il contrario.
Perché infine quei quattro documenti sono stati tenuti separati dai 32 catalogati invece come “vicenda Giovannone-Olp” (il primo versamento del 2022) e dagli ulteriori 163 del versamento di aprile 2023? Chi lo ha fatto e perché? Si tratta però di una domanda mal posta, se si considera che si tratta di carte desecretate addirittura in precedenza. E che, lo si ripete, con i lanciamissili di Ortona non c’entrano nulla. Ma tant’è: ciò che conta è continuare ad agitare le acque, puntando sulla credulità del lettore poco avvezzo a districarsi tra milioni di documenti. Anche usando carte consultabili da anni, “vendute” invece come strappate al segreto e ripescate chissà dove.
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