Il momento della verità si avvicina. L’appuntamento con quello che per Vicenza sarà un processo senza precedenti è per il prossimo 30 novembre. Lo ha deciso lunedì scorso il giudice Roberto Venditti, rinviando l’udienza preliminare del procedimento penale che vede imputati 13 manager dell’azienda chimica Miteni, al centro del caso di inquinamento da perfluoroalchiliche (Pfas) più grave d’Europa. Venditti ha accolto la richiesta dei sostituti procuratori Hans Roderich Blattner e Barbara De Munari: al filone sull’inquinamento dagli anni Sessanta ai primi anni Duemila, nell'udienza del 30 novembre verranno accorpati due ulteriori filoni d’inchiesta per i quali sono appena state inviate le notifiche di conclusione delle indagini.

Le imputazioni sono inquinamento ambientale (introdotto nel 2016) e bancarotta fraudolenta. La magistratura intende far luce sulla produzione di Pfas di nuova generazione (chiamati GenX e C6O4) nello stabilimento di Trissino, in provincia di Vicenza, e sulla chiusura repentina della società Miteni a fine 2018.

Per la pubblica accusa i responsabili sapevano dell’inquinamento, ma dal 2010 non avrebbero mai accantonato fondi per la bonifica e il ripristino del sito come previsto dalla legge.

In caso di rinvio a giudizio, il maxi-processo verrà celebrato davanti alla corte d’Assise. I nuovi indagati sono otto, sei dei quali già imputati nel filone principale d’indagine. Si tratta di Patrick Hendrik Schnitzer, amministratore delegato della International Chemical Investors – Icig (colosso tedesco con base in Lussemburgo, che ha rilevato Miteni nel 2009 da Mitsubishi al prezzo simbolico di un euro), Achim Georg Hannes Riemann, consigliere della stessa Icig, Alexander Nicolaas Smit, Brian Anthony Mc Glynn e Martin Leitgeb, avvicendatisi alla presidenza della Miteni, Antonio Nardone, ultimo amministratore delegato, Luigi Guarracino, direttore operativo e Davide Drusian.

L’urgenza sugli acquedotti

C'è la storia processuale e c'è il presente. Un commissario che deve costruire alla svelta dei bypass per gli acquedotti che dovranno girare al largo dalla falda acquifera inquinata. Operai che dopo aver perso il lavoro ora temono di ammalarsi. E l'attivismo delle MammeNoPfas che non si ferma.

Nei giorni scorsi la sede di Vicenza dell’Inail ha ha riconosciuto a due lavoratori dell’azienda chimica “una menomazione dell’integrità psicofisica” derivante dall’alta concentrazione sierica nel sangue di Pfoa e Pfos, sostanze della famiglia dei Pfas. «Non esistono precedenti in Italia, questa non è una malattia tabellata dall’Inail: questo primo riconoscimento rappresenta un ulteriore, importante risultato dell’iniziativa che da anni portiamo avanti e che continueremo a sostenere per la tutela di lavoratori e popolazione – dichiara il segretario generale di Cgil Vicenza, Giampaolo Zanni - L'Inail ha sancito con questa decisione che le sostanze accumulate nel sangue sul posto di lavoro costituiscono un danno. Così si apre la strada ad altre richieste di riconoscimento».

Secondo indiscrezioni, sono in arrivo altri riconoscimenti dell’Inail per molti ex-dipendenti che però, per il momento, preferiscono non parlarne in attesa dell’esito che li riguarda.

Anche le MammeNoPfas si battono da anni per avere giustizia. L’inquinamento ha coinvolto le loro famiglie attraverso l’acqua potabile di casa e chiedono la bonifica e il recepimento della normativa europea sui limiti Pfas. «Siamo venute a sapere che il 2 ottobre c’era in discussione la nuova proposta di legge che ci ha allarmate. I limiti dello scarico per le aziende sono alti e vengono analizzate pochissime molecole. Non ci sono quelle più pericolose, GenX e C6O4, non è prevista la sommatoria per tutta la famiglia dei Pfas, quindi se un’azienda usa una molecola non in elenco non ha limiti. Manca inoltre il conteggio degli isomeri, i Pfas prodotti durante la lavorazione, che l’Arpav trova in quantità elevate nelle acque. E manca il controllo di queste sostanze, quindi abbiamo chiesto che ci spiegassero scientificamente le scelte, ma non avendo ricevuto risposta, siamo andate a Roma».

Le mamme vanno a Roma

A parlare Michela Piccoli, una delle fondatrici. Quattro mamme davanti a un caffè. Da quattro anni è in prima linea. «Eravamo là con i risultati degli esami del sangue di mia figlia Maria. Quando ho visto gli esami di mia figlia, con la concentrazione nel sangue, da infermiera sono sobbalzata.  A Roma abbiamo incontrato il sottosegretario all’Ambiente Roberto Morassut e Tullio Berlenghi della segreteria tecnica del ministero, in un clima di assoluta buona volontà. Sappiamo che a livello industriale l’approccio è diverso, loro vorrebbero limiti più alti, per quello volevamo incontrare Confindustria. E siamo contente di partecipare a Roma al tavolo tecnico del 29 ottobre prossimo. Non sappiamo se Confindustria ci sarà, ma per noi è importante. Loro ci devono guardare in faccia: nel pozzo di Giovanna ci sono 20mila nanogrammi, nel sangue dei suoi figli è elevatissima. Lo devono sapere. Non vogliamo che accada ad altri quello che stiamo vivendo noi. Questo processo servirà a dire a tutte le aziende che inquinano che si troveranno alle calcagna tutte le MammeNoPfas».

Non ci sono solo le mamme a sostenere che i limiti di sversamento sono necessari. L'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) il 17 settembre scorso, ha raccomandato limiti stringenti per il gruppo delle principali sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) assimilabili attraverso acqua potabile e alimenti.

Per la prima volta l'Efsa ha valutato il rischio per la salute della miscela dei quattro Pfas più comuni, fissando la nuova dose settimanale tollerabile a 4.4 nanogrammi (ng) per chilo di peso corporeo. L'effetto più allarmante rilevato dagli esperti è la diminuita risposta immunitaria alle vaccinazioni.

L'Efsa ha esteso la portata della precedente analisi sui Pfas, datata 2018, e limitata a due sostanze prese singolarmente.

I pareri scientifici di due anni fa avevano identificato come soglie di sicurezza 13 ng/kg di peso corporeo alla settimana per i Pfos e 6 ng/kg per i Pfoa. Il nuovo parere è basato sulla metodologia Efsa che consente l'analisi del rischio per la salute dell'esposizione a più sostanze. Nel febbraio 2020 Efsa aveva pubblicato una bozza di parere fissando la dose settimanale tollerabile per il gruppo di sostanze a 8 ng/kg di peso corporeo. Ma la soglia è stata resa più restrittiva dopo una consultazione pubblica conclusa il 20 aprile scorso, a cui hanno partecipato organismi scientifici, cittadini ed enti competenti degli stati membri.

L’ansia degli ex dipendenti

Chi guarda con attenzione alla vicenda giudiziaria della Miteni sono anche gli ex dipendenti, le persone con la più alta concentrazione nel sangue di acidi perfluoroalchilici rilevata: a fronte di una concentrazione tollerata in ambito europeo di 8 nanogrammi sono state trovate anche decine di migliaia di nanogrammi per grammo di sangue (un nanogrammo è un miliardesimo di grammo).

Studi condotti nel 2019 da Paolo Girardi, del dipartimento epidemiologico dell’Azienda Zero del Veneto, e da Enzo Merler, della direzione di Prevenzione e salute pubblica della Regione, confermano che l'esposizione ai veleni dei dipendenti Miteni è molto superiore anche a quella dei  lavoratori statunitensi coinvolti nel caso Dupont nel 2002.

«Ci sentiamo in qualche modo fratelli di sangue, se non altro per i veleni che ci portiamo dentro – racconta Renato Volpiana, già membro della rappresentanza sindacale unitaria Miteni – Oggi con i colleghi abbiamo fondato un comitato per rimanere uniti durante lo svolgimento del processo. Se le tre inchieste saranno unite, valuteremo di costituirci parti civili anche per la bancarotta e l’inquinamento più recente».

Dopo la chiusura della fabbrica i lavoratori sono stati protagonisti di una lotta strenua a suon di scioperi e manifestazioni, per il diritto alla salute ma anche al lavoro. Oggi molti di loro si sono ricollocati in altre aziende del territorio, mentre altri si stanno formando per cercare occupazione in altri settori. Troppo forte lo shock a cui sono stati sottoposti in questa vicenda.

Molto attente al processo sono anche le società di gestione degli acquedotti. In questi anni sono state costrette, loro malgrado, a portare acqua e veleni ai rubinetti degli abitanti delle province di Vicenza, Verona e Padova. Acque del Chiampo, Acque Veronesi, Viacqua e Acque Venete hanno già speso 96 milioni di euro in filtri a carboni attivi per garantire acqua pulita alla popolazione.

Nel frattempo Nicola Dell'Acqua, il commissario delegato (si chiama davvero così) alla costruzione dei nuovi acquedotti che dovranno fare a meno della immensa falda acquifera compromessa per i prossimi decenni, ha fatto il punto sui cantieri finanziati con 80 milioni di euro dal ministero dell’Ambiente: la dorsale veronese (18 km) sarà pronta il mese prossimo; quella che raggiunge Lonigo dal Basso vicentino sarà pronta entro giugno; per il completamento degli oltre 22 km di dorsale padovana ci vorrà oltre un anno; mentre le condotte che scendono dall’Alto vicentino non saranno operative prima di febbraio 2022.


Questa inchiesta è stata scelta e finanziata dai lettori. Stiamo raccogliendo le proposte per le prossime, a tema Salute e Covid. Se sei un giornalista e hai un progetto di inchiesta, manda le tue idee a lettori@editorialedomani.it

© Riproduzione riservata