Negli ultimi cinque anni il regno saudita ha smesso di finanziare le moschee in giro per il mondo e per riabilitare la sua immagine punta sugli scambi culturali e le cattedre universitarie. La Grande Moschea di Roma è stata per anni il suo centro di diplomazia religiosa
- Con la deposizione della prima pietra della Grande Moschea di Roma, i sauditi hanno ottenuto un importante centro di potere politico e religioso nel cuore dell’Italia.
- L’ex ministro dell’Interno Minniti aveva pensato di commissariare la struttura perché troppo dipendente dalle ambasciate arabe.
- Ora il soft power della penisola arabica passa attraverso il finanziamento di eventi culturali e cattedre universitarie come accaduto a Bologna.
Le relazioni tra Italia e Arabia Saudita iniziano il 19 aprile del 1932 quando Faysal, il figlio del re Abdullaziz, alla giovane età di 26 anni fu ospitato a Palazzo Chigi per lo scambio delle ratifiche del Trattato di amicizia fra i due paesi. Da quel momento, Italia e Arabia Saudita sono state legate da una ricca relazione diplomatica che ha giovato all’export italiano. Tuttavia, è impossibile scindere il paese arabo dalla sua fervente vena religiosa. Il regno saudita è sempre stato considerato un avamposto dell’Islam in medio oriente e a partire dagli anni Settanta ha diffuso la sua dottrina wahabita, che si ispira a un’interpretazione letterale e conservatrice del Corano, attraverso la costruzione di moschee e centri culturali in tutto il mondo. Come anche altri stati europei, l’Italia non è stata immune da questa strategia, che però si è scontrata con una comunità islamica frastagliata e divisa. Un terreno di scontro in cui gli stati arabi, attraverso le proprie ambasciate, hanno portato avanti una diplomazia religiosa per imporre ognuno la sua visione dell’Islam in Europa.
La Grande Moschea di Roma
Il cavallo di troia saudita è stato la costruzione della Grande moschea di Roma, fortemente voluta, ancora una volta, dall’oramai adulto Faysal che non vedrà mai l’opera completa perché assassinato nel 1975. Con la deposizione della prima pietra, i sauditi hanno ottenuto un importante centro di potere politico e religioso nel cuore dell’Italia. Per evitare uno scontro con gli altri stati esteri è stata decisa una spartizione a tre di questo potere.
L’Arabia Saudita finanzia la moschea, il Marocco la gestisce attraverso un suo segretario generale e l’Egitto nomina l’Imam proveniente dall’Università di Al Azhar del Cairo. Un accordo a tavolino che faceva contenti tutti fino al 2017 quando l’allora ministro dell’interno Marco Minniti pensava di commissariare la struttura perché i finanziamenti erano poco trasparenti e non venivano pubblicati i bilanci. Per evitare il commissariamento sono state proposte delle modifiche allo statuto del Centro islamico culturale d’Italia (istituzione riconosciuta dal Decreto del Presidente della Repubblica nr. 712/1974) che ha in gestione la moschea. Sono cambiati anche i membri del cda dove una volta sedevano diplomatici libici, egiziani, marocchini, sauditi e altri rappresentati dei paesi arabi. «Il cambio del cda è stato una valutazione assembleare anche per proteggere un islam italiano autonomo dalle ambasciate» afferma Yahya Pallavicini, presidente del Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana) e attuale membro dell’Assemblea del Centro islamico culturale d’Italia. Sempre in quell’anno, Khalid Chaouki, il deputato del Partito democratico nato a Casablanca, venne eletto dall’Assemblea come presidente. Una figura che era stata individuata anche per mediare tra il Regno del Marocco e quello Saudita.
Nel 2017 viene anche firmato dalle varie associazioni islamiche il “Patto nazionale per un Islam italiano” con il ministro Minniti. Nell’ottica di una più ampia lotta al fondamentalismo, il Viminale chiedeva una serie di misure tra cui rendere pubblici i nomi e i recapiti degli Imam, di tradurre il sermone del venerdì in italiano e soprattutto di «assicurare la massima trasparenza nella gestione e documentazione dei finanziamenti, ricevuti, dall’Italia o dall’estero, da destinare alla costruzione e gestione delle moschee». Ciononostante, i bilanci della Grande Moschea di Roma non sono mai stati resi pubblici. «Da almeno cinque anni la struttura è stata aggiornata e che io sappia non vengono più ricevuti finanziamenti dall’Arabia saudita. Mi risulta, invece, che il Marocco è uno dei principali finanziatori fin dall’inizio» spiega Yahya Pallavicini. Un dato confermato anche dall’imam di Firenze, ed ex presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), Izzedin Elzir, che spiega: «Fino a circa cinque anni fa l’Arabia Saudita finanziava la grande moschea di Roma e aiutava diverse altre moschee che condividevano il loro pensiero».
Cambio di strategia
A causa delle varie critiche ottenute anche a livello internazionale, il regno saudita ha rimodulato la sua visione strategica e politica. Ora il soft power della penisola arabica passa attraverso il finanziamento di eventi culturali e cattedre universitarie. È il caso dell’inaugurazione, avvenuta nell’ottobre del 2016, della cattedra di studi arabi e islamici re Abdulaziz presso l’università di Bologna.
Anche la capitale ha iniziato un percorso accademico condiviso con il ministero dell’istruzione saudita. Lo scorso 19 febbraio, infatti, c’è stato un incontro tenuto alla Sapienza tra una delegazione della King Abdulaziz University con l’obiettivo di «discutere di possibili collaborazioni tra le due università» e «firmare accordi» a riguardo. Percorsi accademici e scambi interculturali con l’obiettivo di ripulire l’immagine del regno e approdare al tanto aspirato Rinascimento. «È un processo da seguire con interesse, l’Arabia Saudita è un partner strategico per l’Europa, l’Occidente e l’Italia, non vedo l’opportunità di cavalcare dei pregiudizi» dice Pallavicini.
Qatar e Turchia non restano a guardare
Non soltanto Arabia Saudita, anche turchi e qatarioti hanno messo mano alle moschee europee, portando avanti una visione dell’Islam legata alla fratellanza musulmana e in opposizione a quella degli altri paesi arabi. In Germania, ad esempio, gli Imam vengono scelti e mandati direttamente da Ankara. In Italia l’Ucoii, ha ricevuto finanziamenti dalla Qatar Charity, una ong che negli ultimi cinque anni ha finanziato progetti umanitari e di sviluppo per un valore di 1,2 miliardi di dollari. Un’occasione per continuare ad alimentare lo scontro su quale associazione sia la più “puritana” e possa difendere gli interessi dei musulmani in Italia. Immediatamente, l’Ucoii è stata accusata di essere guidati dai fratelli musulmani, ma dalla comunità assicurano che i soldi sono stati elargiti da semplici benefattori e che per un cavillo burocratico si è passati attraverso quel fondo per far arrivare i soldi in Italia.
I venticinque milioni di euro elargiti in tre anni sono serviti a comprare una trentina di capannoni per la costruzione di moschee sul suolo italiano. «Abbiamo preso soldi non dal governo ma dalla fondazione Qatar Charity. Come fedele musulmano e membro della comunità accetto donazioni da chiunque a costo che siano trasparenti e tracciabili e senza mettere condizioni. Questo non significa essere filo di un certo paese, vogliamo la nostra libertà e autonomia» afferma l’imam Izzedin. I bilanci dell’Ucoii sono pubblici e consultabili, nel 2019 hanno ricevuto donazioni libere per 13,130 euro, una cifra molto bassa rispetto ai milioni degli anni precedenti.
In un comunicato pubblico il segretario generale Centro Islamico culturale d’Italia, Abdellah Radouane, ha accusato l’Ucoii di avere tra i suoi fondatori persone che hanno portato la fratellanza musulmana in Italia.
Critiche al veleno venute dopo gli accordi siglati tra l’Ucoii e il governo in piena pandemia per far fronte alle esigenze dei musulmani: dall’ampliamento dei cimiteri alla riapertura delle moschee. Una lotta per intestarsi la legittima politica a dialogare con le istituzioni italiane in qualità di rappresentante della comunità islamica italiana
Il Marocco controlla l’Islam nella capitale
A Roma, dopo il ritiro finanziario dei sauditi, il palcoscenico vede un solo attore protagonista: il regno del Marocco. Il segretario generale della grande Moschea, Abdellah Radouane, nominato direttamente dalla casa reale del Maghreb è l’avamposto dell’Islam malikita a Roma. Secondo le cifre presentate da ofcs.report, nel 2015 il Marocco avrebbe versato nelle casse della Grande Moschea di Roma contributi per circa 211mila euro.
Lo stesso membro del cda della Grande Moschea, Massimo Cozzolino, in un’intervista rilasciata alla fondazione Oasis ha ammesso l’influenza marocchina in Italia, che conta una comunità di circa mezzo milione di italiani, dicendo che: «Tutto ciò determina forme di interesse da parte del Regno del Marocco, nel fare in modo che la comunità cresca fuori dal proprio territorio ma nel rispetto dei principi democratici e costituzionali italiani ed europei». Schieramenti opposti di uno scacchiere geopolitico religioso che si gioca in Italia. Uno scontro che limita la crescita di un Islam italiano autonomo. In questo caso, l’unica soluzione per essere indipendenti è dare vita al concordato con lo Stato italiano e poter accedere a fondi economici come l’otto per mille, che garantirebbe entrate registrate e trasparenti lontani dalle influenze saudite, marocchine o qatariote.
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